La teoria del disimpegno morale di Albert Bandura spiega come le persone possano compiere azioni immorali o crudeli senza provare sensi di colpa e senza compromettere la propria autostima.
Impossibile non associare quanto sta accadendo a Gaza con quelli che sono i meccanismi cognitivi ormai ben noti che qualunque carnefice attua dentro di sé, per normalizzare e giustificare a se stesso le atrocità che compie su altri esseri umani.
Impossibile anche non ricordare, dai miei studi universitari, che i primi ricercatori che studiarono questi aspetti, approfondendo le radici culturali, psicologiche e sociali che avevano reso possibile l’Olocausto – Adorno, Horkheimer, Lewin, Fromm e altri – erano tutti ebrei perseguitati dal nazismo rifugiatisi in America.
Il disimpegno morale di Bandura
La teoria di Bandura, che trovo particolarmente utile, mostra come attraverso il disimpegno morale si ridefiniscono cognitivamente le proprie azioni per non sentirsi responsabili o colpevoli, anche quando quelle azioni violano norme etiche e producono conseguenze drammatiche sul piano umano.
Bandura identifica otto meccanismi psicologici che letteralmente disattivano la coscienza morale, rendendo possibile l’attuazione di atrocità senza provare conflitti interiori. Li troviamo praticamente tutti nel dibattito sul genocidio in atto nella Striscia di Gaza, segno che tutti gli studi sul funzionamento umano portati avanti dal secondo dopoguerra non ci hanno reso persone migliori, purtroppo.
Tuttavia, da psicologa devo continuare a pensare che la consapevolezza può salvarci e renderci persone più sensibili, compassionevoli e gentili, verso gli altri e verso noi stessi. Provo quindi a spiegare come i meccanismi cognitivi del disimpegno morale rendono possibile un genocidio, lasciando i carnefici con la beata convinzione di agire per il bene e dunque perfettamente a posto con la propria coscienza.
Gli otto meccanismi del disimpegno morale
1 – Giustificazione morale: si ridefinisce l’atto immorale collegandolo con uno scopo superiore o addirittura nobile, in modo da farlo apparire giusto, utile o necessario
Un’azione palesemente ingiusta e brutale, come l’uccisione di bambini in fila per il cibo, nel momento in cui viene collegata a valori superiori, viene trasformata in qualcosa di doloroso sì, ma necessario o addirittura virtuoso. Chi perpetra tali brutalità non si sente colpevole, ma eroico. L’uccisione in massa dei palestinesi è giustificata come una necessità legata alla sicurezza nazionale e alla lotta contro il terrorismo di Hamas. L’invasione viene presentata come una missione moralmente necessaria alla sopravvivenza, per proteggere i civili israeliani.
Invocando l’autodifesa, si trasforma un’azione militare che uccide in prevalenza i civili in un “diritto”, posto all’interno di una cornice “morale” sostenuta anche dall’idea estremamente diffusa tra gli israeliani che gli ebrei, “popolo eletto”, abbiano una missione o uno scopo particolare nel mondo, legato al loro rapporto speciale con dio. Alcuni leader e sostenitori israeliani invocano la protezione del popolo ebraico come “dovere sacro”, talvolta citando testi religiosi per giustificare l’uso della forza. Ed ecco che l’orrore diventa moralmente accettabile e il rimorso un fardello facile da rimuovere.
2 – Etichettamento eufemistico: si usano parole neutre o ambigue per descrivere azioni gravi, mascherandone o attenuandone la brutalità
Il linguaggio influenza la percezione e ha il potere di attenuare o neutralizzare la gravità dell’atto, ad esempio attraverso termini come “operazione chirurgica”, “neutralizzazione di minacce”, “danni collaterali”, per riferirsi a bombardamenti che causano ingenti danni alle infrastrutture civili e perdite di vite umane, come se si trattasse di un’operazione legittima, precisa e controllata. In realtà, si tratta di azioni che colpiscono indiscriminatamente civili e possono essere considerate come crimini di guerra. Si usano espressioni come “situazione tragica ma inevitabile”, per normalizzare e rendere l’orrore più digeribile.
Il termine “genocidio”, invece, continua a incontrare notevoli resistenze, con una serie di sottili distinzioni tecniche e semantiche, allo scopo di addolcire la percezione di quello che avviene realmente. “Genocidio” implica un’azione sistematica e intenzionale di sterminio, con l’intento di annientare un popolo o un gruppo, mentre “guerra” o “conflitto israelo-palestinese” suggeriscono che le vittime siano solo “collaterali” di uno scontro tra due parti in lotta e non parte di un piano deliberato di sterminio o distruzione. La questione linguistica non è secondaria, in termini di evitamento di assunzione di responsabilità, anche a livello internazionale.
3 – Confronto vantaggioso: si paragona il proprio atto immorale a uno ben più riprovevole, per farlo sembrare relativamente accettabile
La violenza su larga scale di Israele, confrontata con le atrocità commesse da altri Stati (ad esempio la Siria) oppure dallo stesso Hamas, viene ridimensionata nella percezione della gravità e quindi nell’impatto emotivo e morale. Si citano spesso gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza e le condizioni in cui sono tenuti, come simbolo della brutalità di Hamas, mentre Israele sottolinea di aver adottato misure preventive, come avvisi di evacuazione e corridoi umanitari, per ridurre il numero di vittime civili. Il presidente israeliano Herzog ha dichiarato: “Israele non uccide indiscriminatamente”, passando il concetto che le loro uccisioni sono mirate e legittime, non barbare e irrazionali come quelle di altri.
4 – Dislocamento della responsabilità: si attribuisce la decisione e quindi la colpa a un’autorità superiore, negando il proprio ruolo
Rappresentarsi come “esecutori” di ordini superiori invece che “autori” di un’azione immorale, permette a chi agisce di dissociarsi dalle conseguenze morali delle proprie azioni e di azzerare il peso della colpa. È come dire: è terribile quello che sto facendo, ma non sono io ad averlo voluto; che colpa possono averne? Ogni militare tende a deresponsabilizzarsi attribuendo la decisione alla gerarchia militare superiore.
Nel caso di Israele, la responsabilità ultima è di dio. Il dislocamento avviene riferendosi a un disegno superiore o collettivo che va oltre la propria responsabilità personale. Ritenendo che le proprie azioni siano parte di un mandato divino o di un destino scritto, gli atti violenti non sono più visti come un’azione brutale personale, ma come una manifestazione della volontà di dio. È infatti dio ad aver scelto gli ebrei come “popolo eletto” e ad aver loro assegnato la “terra promessa”. L’individuo che non agisce secondo la propria volontà, ma obbedisce a un mandato divino che non può essere messo in discussione, dorme i sonni tranquilli di chi ha la coscienza a posto.
5 – Diffusione della responsabilità: la responsabilità di un’azione viene condivisa tra più soggetti, riducendone il peso individuale
È un meccanismo che consente la dispersione della responsabilità riducendo il senso di colpa e la pressione morale sul singolo. Il sostegno (leggi complicità) internazionale contribuisce a legittimare e perpetuare il massacro a Gaza, come se l’azione fosse condivisa e quindi meno imputabile. La responsabilità di Israele viene diluita, se vi sono Paesi che continuano a fornire armi e a sostenere il suo “diritto alla difesa”, pur conoscendo le accuse di genocidio.
6 – Distorsione delle conseguenze: si nega o si minimizza l’impatto dell’azione immorale o i suoi effetti dannosi, fino a renderli irrilevanti
La propaganda israeliana enfatizza le azioni che sarebbero state intraprese per evitare le vittime civili (avvisi di evacuazione tramite i volantini, corridoi umanitari), per sostenere che le conseguenze negative sono tutto sommato limitate o non intenzionali.
Qualche commentatore si è spinto oltre, dimostrando dati alla mano che la popolazione di Gaza sarebbe aumentata, per poter negare le evidenze di una distruzione sistematica. La demografia viene usata in questo caso per rendere invisibili le vittime e per oscurarne la sofferenza. Sono numeri e non persone, sono in aumento e quindi non può esserci genocidio. Di pari passo si enfatizzano le vittime israeliane, amplificando la portata delle sofferenze dei singoli ostaggi, sofferenza senz’altro reale, ma che appare come di più degna considerazione rispetto quella delle vittime palestinesi.
7 – Deumanizzazione: si nega l’umanità della vittima, riducendo l’empatia nei suoi confronti
Descrivendo le vittime come appartenenti a un gruppo inferiore o meno umano, la crudeltà nei loro confronti è possibile senza rimorsi. Se ci si considera il popolo prescelto da dio, ovviamente gli altri sono poco più che bestie o parassiti e non meritano rispetto. Anche l’essere stati vittime di un Olocausto fornisce agli israeliani un elemento che giustifica il porsi in una posizione superiore, praticamente intoccabile, rispetto a chiunque altro. I palestinesi vengono spesso descritti in modo stereotipato o disumanizzante, associati indistintamente a terroristi di Hamas o a soggetti a cui non è attribuita la dignità di persone. Discriminazioni, violenze e uccisioni nei loro confronti generano meno orrore.
8 – Attribuzione di colpa: si rovescia la responsabilità sull’altro, facendo apparire la vittima come causa del proprio destino
Questo meccanismo comporta il portare a ritenere che la vittima abbia meritato il danno subito. Se l’altro “se l’è meritato”, allora l’atto è giusto. Le azioni di sterminio vengono presentate come risposta agli attacchi del 7 ottobre 2023. In questo modo, i palestinesi sono rappresentati come responsabili della propria sofferenza per aver “provocato” Israele, narrazione che ribalta il ruolo di aggressore e vittima. Qualcuno ha perfino parlato di “punizione collettiva”.
A volte ci si è spinti fino a dire che sono i palestinesi a mettersi in pericolo e a non proteggere i propri figli. Si sostiene che se Hamas si nasconde tra la popolazione, è “colpa loro” se i civili vengono colpiti, perché usati come scudi umani. Alcune narrazioni suggeriscono che i palestinesi vogliono Hamas e quindi sono corresponsabili delle loro azioni terroristiche. È un meccanismo molto efficace per evitare la colpa. Se l’intero gruppo palestinese è colpevole per le azioni di Hamas, allora l’intera popolazione di Gaza è un obiettivo legittimo.
Non dimentichiamo che, come mammiferi, siamo creature sociali, naturalmente inclini a relazioni affettuose, alla compassione e alla gentilezza verso i nostri simili. Siamo crudeli quando la tenerezza, biologicamente connaturata in noi, viene disattivata attraverso una narrazione che legittima quello che naturalmente ci ripugnerebbe.
Spero davvero che la consapevolezza di questi meccanismi possa diventare una forma di resistenza morale: un modo per non lasciarsi manipolare, per scegliere intenzionalmente la compassione al posto dell’odio e per non sospendere mai la nostra coscienza morale.