Autore: Elena Grilli
Gruppo libero di donne Sboccia-tè
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in Il cerchio di Banpo.
Gruppo libero di donne Sboccia-té
Sboccia-tè è un gruppo di donne in passato vittime della violenza maschile, che vogliono rifiorire e aiutare altre a rifiorire.
Davanti a un tè, una tisana, un caffè e qualche pasticcino, in un ambiente sicuro e totalmente libero da giudizi e pregiudizi, si parla liberamente di sé, degli effetti della violenza da annientare, di obiettivi di crescita personale, di desideri da realizzare. Per diventare la donna che si vuole essere, o per far riaffiorare la donna che è stata annullata dalla violenza, attraverso un percorso comune.
Idee diverse di femminilità a confronto, tutte vere e legittime. Un modo di pensare le relazioni tra donne che in modo incondizionato dà valore, riconoscimento, forza.
Non è un gruppo psicoterapeutico, ma un luogo di incontro e di parola
Gli incontri sono gratuiti e si svolgono presso lo studio di psicoterapia di Ancona, via Saffi n. 12, ogni primo lunedì del mese, dalle ore 18 alle 20. Per entrare a far parte del gruppo è necessario un primo incontro conoscitivo.
Altri servizi inerenti il benessere psicologico delle donne:
La sala d’attesa
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in blog, Mondo femminile e violenza di genere.
La sala d’attesa
La sensibilizzazione sulla violenza di genere, le sue dinamiche e le vie per affrancarsene può passare attraverso diversi canali. Uno di questi è il teatro.
Vorrei qui presentare l’esperienza teatrale particolare portata avanti da un gruppo informale di attrici non professioniste di cui faccio parte e che ha preso il nome di “A casa di Teresa“, ad indicare il luogo dove il gruppo ha iniziato a riunirsi.
L’opera che viene rappresentata è “La sala d’attesa” di Stefania De Ruvo. In una non meglio definita sala d’attesa si ritrovano 5 donne, tutte diverse ma, come scopriranno parlando, accomunate da un destino simile. Sono tutte vittime della violenza maschile. Nella dialettica, talvolta anche conflittuale tra di loro, i personaggi portano la propria esperienza di violenza, condividendola e contribuendo a illustrare un particolare aspetto della violenza.
È questa l’occasione per fornire qualche elemento in più alla comprensione della spirale della violenza, per capire il perché è una trappola dalla quale è difficilissimo fuggire e le conseguenze che ha anche sul piano psicologico, oltre che fisico.
Chiara è il personaggio che mette in scena il classico “ciclo della violenza”.
Le esplosioni violente si alternano a fasi di rappacificazione, in cui il maltrattante apparentemente riconosce e chiede scusa per il suo comportamento abusante, promettendo di cambiare.
È questa una dinamica che ritroviamo spesso nei rapporti maltrattanti e che contribuisce a costruire una gabbia le cui sbarre sono difficili da oltrepassare. La donna che ne è prigioniera si trova nella confusione: alterna momenti di paura a momenti in cui rinasce la speranza che lui abbia capito e che le cose cambieranno. Il suo sforzo è quello di sopportare, in attesa che questo cambiamento si attui; nel frattempo si impegna a mantenere una immagine di famiglia perfetta all’esterno, per vergogna, ma anche per la disperazione di chi si aggrappa a quel poco che c’è di bello nella relazione.
Maria è una donna più matura, che racconta di una vita volta a scongiurare le esplosioni violente attraverso l’obbedienza, la sottomissione, fino al totale asservimento. È questo il dramma delle donne che spendono una intera esistenza pensando che se saranno più capaci, attente, docili, dedite al proprio marito, lui sarà più calmo e non avrà motivo per rimproverare o peggio, picchiare. È il personaggio che ci fa capire quanto tutto questo sia inutile, perché il maltrattante agirà violenza comunque.
Nonostante la vittima continuamente colpevolizzi se stessa, individuando le cause della violenza in un qualche errore commesso, di fatto la violenza cesserà solo se e quando lui lo vorrà, indipendentemente dal comportamento di lei.
Il personaggio di nome Cristina rappresenta l’esperienza di abuso in famiglia. I suoi monologhi sono uno spaccato sul dramma dell’incesto e sul clima di omertà familiare che rende sole, abbandonate ad un carnefice che non si può avere la forza di contrastare, per il potere schiacciante che un padre può avere su una figlia. Cristina dà anche voce alle pesanti conseguenze psicologiche che un simile trauma può avere per tutta la vita, in termini di autostima distrutta, senso di impotenza, depressione profonda.
Lucia è la donna forte, risoluta, che reagisce immediatamente. La consapevolezza di sé e dei propri diritti la porta a lasciare il partner violento dopo il primo schiaffo. Lucia diventa vittima di atti persecutori pesanti e con conseguenze drammatiche. La sua vicenda ci fa riflettere su quanto sia ridicola la questione che a volte viene posta quando si parla di violenza domestica: “E perché non lo lascia, se non le piace come la tratta?”
Uno dei motivi principali per cui una donna non lascia un uomo violento è che sa i rischi a cui andrebbe incontro. La violenza peggiora, quando lei decide di separarsi, con conseguenze a volte anche letali.
Lucia è il personaggio che paga il prezzo della sottovalutazione del pericolo.
L’ultimo personaggio, senza nome, è la donna che instaura col proprio carnefice un legame di patologica alleanza.
In psicologia viene definito “legame traumatico”, caratterizzato da una forma di dissociazione per la quale la vittima stessa nega la violenza, se ne distanzia, non la vuole vedere.
Lo fa innanzi tutto per sopravvivere lei a una realtà tanto orribile da poterla accettare solo negandola o trovandole giustificazioni. Il legame traumatico “normalizza” l’abuso, lo rende accettabile, ma mina profondamente una obiettiva percezione della realtà. Forse, se è senza nome, è anche perché è di tutte le donne di questo dramma quella che più perde se stessa, annullandosi.
Il progetto che ruota intorno a “La sala d’attesa” ha molteplici obiettivi:
- mettere in scena non tanto la violenza quanto la sua narrazione, attraverso le parole delle donne, ridando quindi voce a coloro che voce non hanno avuto;
- sensibilizzare e far conoscere le dinamiche e le conseguenze della violenza, per riconoscerle, difendersene, denunciarle alle prime avvisaglie, anche quando riguardano persone a noi vicine;
- contribuire a finanziare associazioni private che gestiscono importanti presidi: centri e sportelli antiviolenza innanzi tutto.
Il gruppo “A casa di Teresa” è a disposizione delle varie realtà territoriali a cui interessa fare sensibilizzazione attraverso questa modalità. Scopri il loro progetto.
Protocollo Napoli
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in blog, Mondo femminile e violenza di genere, violenza.
Protocollo Napoli
Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio
Questo studio recepisce e attua il “Protocollo Napoli”, le linee-guida in materia di consulenza psicologica in caso di violenza, nella cornice della Convenzione di Istanbul.
Nei casi di violenza domestica e violenza assistita da parte dei bambini, gli esperti possono essere chiamati a valutare le condizioni per l’affidamento dei figli nella fase di separazione. Affinché sia garantita la tutela psicofisica non solo dei minori ma anche delle loro madri, vi sono dei principi ineludibili ai quali richiamarsi per gestire il caso non come una comune separazione, ma una situazione nella quale la sicurezza delle vittime della violenza va messa al primo posto.
Le colleghe Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo, Elvira Reale ed Ester Ricciardelli definiscono i seguenti punti:
a) Valutare la presenza di violenza domestica nei confronti della madre (IPV)
b) Sollecitare gli esperti a un sempre maggiore approfondimento della specificità
c) Promuovere la distinzione tra intervento psicologico valutativo e trattamento
d) Promuovere l’ascolto del minore, partendo dal diritto alla ‘Safety First’
e) Promuovere il Dovere-Diritto alla genitorialità (Art. 30 della Costituzione)
f) Promuovere l’adesione solo ai costrutti scientifici validati da organismi internazionali
g) Promuovere modalità di affido che non alterino le abitudini di vita del minore
Valutare se nella famiglia il padre agisce violenza fisica, psicologica, sessuale sulla madre è un elemento di primaria importanza, alla luce del quale comprendere eventuali inadeguatezze sul piano della genitorialità: per il padre in termini di pericolosità; per la madre in termini di sintomatologia traumatica da non confondere con disfunzioni o fragilità personali più strutturali.
Laboratorio “Il cerchio di Banpo”
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in Il cerchio di Banpo.
Laboratorio di assertività femminile
“Il cerchio di Banpo” è un percorso di gruppo strutturato centrato sull’assertività e l’affermazione personale delle donne.
Il programma del laboratorio ruota intorno a tecniche specifiche per rafforzare l’autostima, gestire emozioni e stati d’animo, porsi obiettivi di crescita personale e di sfida attiva delle proprie paure. Molto pragmatico ed esperienziale, permette di incrementare abilità specifiche e la fiducia nel proprio potenziale.
Se anche l’autostima è un fattore rilevante per tutti, anche per gli uomini, in una cultura ancora profondamente patriarcale sono le donne a pagare il prezzo più alto in termini di svalutazione, squalifica, sottostima del valore e delle capacità personali. L’autostima delle donne ha dunque una componente socio-culturale e politica che in questo laboratorio è oggetto di riflessione critica, accanto ai fattori individuali e familiari.
Di seguito alcune delle tematiche che possono essere affrontate:
- Le specificità dell’autostima al femminile
- Il rapporto col “femminile”
- Il rapporto col “maschile”
- I meccanismi di intrappolamento e svalutazione del potenziale
- Costruirsi un’idea di valore personale
- Difendersi dalla manipolazione affettiva
- Interrompere i meccanismi che alimentano l’ansia
- La paura: riconoscerla e sfidarla
- La rabbia: riconoscerla e usarla in modo costruttivo
- Difendere i propri confini e i propri diritti
- Sopravvivere al perfezionismo
- Costruire un rapporto sano col proprio corpo
- La violenza di genere e le molestie: come difendersene
Il servizio è pensato per essere itinerante, a disposizione di qualunque realtà (associazioni, centri, sportelli antiviolenza, strutture d’accoglienza) che voglia avvalersene per sé e/o per la propria utenza.
I gruppi possono andare da un minimo di 8 a un massimo di 15 persone. A seconda della dimensione del gruppo e del contesto, il programma viene personalizzato. Anche il numero e la durata degli incontri può essere flessibile in base alle specifiche esigenze del gruppo.
“Banpo” era una comunità matriarcale stabilitasi nella valle del fiume Giallo in Cina e risalente a circa 6000 anni fa. Il servizio prende il nome da una delle molte comunità del passato in cui le donne erano protagoniste, proprio per sottolineare l’importanza di un contesto comunitario al femminile per darsi forza e riconoscimento a vicenda.
I prossimi appuntamenti del “Cerchio di Banpo”:
Il Cerchio di Banpo 3 a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, in via Corridoni 21. Date: 27 gennaio, 10 e 24 febbraio, 10 e 24 marzo 2025 – dalle ore 18 alle 20
Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano
Il Cerchio di Banpo 2 a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, in via Corridoni 21. Date: 9, 16 e 30 ottobre, 13 e 20 novembre 2023 – dalle ore 18 alle 20
Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano
Il Cerchio di Banpo a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, che gestisce il centro antiviolenza cittadino, in via Corridoni 21. Date: 17, 24 ottobre, 7, 14, 21 novembre 2022 – dalle ore 18 alle 20
Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano
Altri servizi inerenti il benessere psicologico delle donne:
Supervisione di servizi antiviolenza
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in Il cerchio di Banpo.
Supervisione di servizi antiviolenza
L’uscita dalla violenza è un percorso, composto da fasi, ognuna delle quali ha delle specificità.
Affiancare con efficacia una donna che subisce violenza significa innanzi tutto accantonare una serie di luoghi comuni e nozioni apparentemente intuitive per entrare nella logica di un processo complesso, articolato, costellato di ostacoli e di decisioni difficili. Le equipe dei centri antiviolenza e delle case rifugio possono beneficiare molto di una supervisione centrata sui casi, al fine di:
- Rilevare, negli specifici casi, gli ostacoli non solo materiali, ma anche psicologici (attenzione: NON psicopatologici) alla fuoriuscita dalla violenza
- Saper leggere nel caso specifico le conseguenze del trauma e le strategie di sopravvivenza
- Capire in quale fase del percorso di fuoriuscita si trova la donna in un dato momento e definire strategie di accompagnamento alla successiva fase
- Predisporre un piano di sicurezza
- Fornire il giusto supporto per ogni stadio, in sintonia con i tempi della donna
- Evitare gli errori più comuni per gli operatori/trici
- Saper mettere in atto strategie efficaci per superare le fasi di stallo nel percorso
- Comprendere come le dinamiche interpersonali all’interno del servizio possono interferire con l’accoglienza delle donne che chiedono aiuto.
Altri servizi inerenti il benessere psicologico delle donne:
Formazione su violenza di genere
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in Il cerchio di Banpo.
Formazione su violenza di genere
La violenza sulle donne segue un preciso pattern, uno schema ridondante che mira al potere e al controllo.
L’inizio della mia esperienza nel settore della violenza sulle donne risale al 2006. Negli anni ho collaborato con i centri antiviolenza di Ancona “Donne e Giustizia” e “Artemisia” di Fabriano”, con la casa rifugio per donne “Zefiro” e ho tenuto varie formazioni sulla violenza di genere.
Le tematiche di queste formazioni sono:
- Le radici culturali della violenza di genere
- Le dinamiche del potere e del controllo, il ciclo della violenza
- Le conseguenze psicologiche della violenza
- Linee guida per l’accoglienza delle donne vittime di violenza
- Valutare il rischio di recidiva e di letalità della violenza
- Valutare gli ostacoli esterni ed interni alla fuoriuscita dalla violenza
- Valutare quanto la donna è pronta a fare azioni di fuoriuscita
- Conoscere i processi decisionali nel percorso di fuoriuscita
- Predisporre un piano di sicurezza e rimuovere gli ostacoli psicologici alla sua esecuzione
- Le fasi del percorso di uscita dalla violenza e gli interventi idonei per ogni fase
- Il sostegno psicologico per la donna ancora all’interno del ciclo della violenza
- Il sostegno psicologico nel post-separazione: autonomia, assertività, autostima
- Il sostegno in colloquio individuale e in gruppo
Altri servizi inerenti il benessere psicologico delle donne:
Si rimugina troppo?
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in blog, disturbi d'ansia, Disturbi dell'umore.
Si rimugina troppo?
Una grande parte dei disturbi depressivi o ansiosi va di pari passo con quel rimuginio ininterrotto, ripetitivo e controproducente che può occupare ore e ore delle nostre giornate.
La principale caratteristica del rimuginio è la sua ripetitività e ridondanza, che lo distingue nettamente dal pensiero finalizzato alla soluzione di un problema. Spesso riteniamo che per risolvere un problema lo dobbiamo comprendere alla radice, analizzarne tutte le sfaccettature, approfondirne le cause e prevederne tutte le conseguenze. E poi ricominciare da capo, perché nulla sia sfuggito a questa analisi. Ci si pongono sempre le stesse domande, a cui non riusciamo da trovare risposte soddisfacenti, il che ci porta a ripetere l’intero processo, potenzialmente anche all’infinito. Questo è il modo migliore per restare incagliati in una situazione di stallo, carico di ansia e agitazione da cui nel tempo sarà sempre più difficile venir fuori. Osservando se stessi bloccati e in preda a una sofferenza emotiva sempre più intensa, finiremo anche completamente scoraggiati circa la possibilità di modificare lo stato di cose, di qui anche l’umore basso che a volte ci può attanagliare.
Vi è alla base un errore di fondo: si ritiene che più si riflette su una questione e più essa ci diventerà chiara e noi saremo più capaci di affrontarla, il che è del tutto sbagliato. Alcune varianti di questo pensiero:
- più cerco di capire gli errori del passato e più sarò in grado di prevenire errori futuri;
- più comprendo le radici dei miei problemi analizzando il mio terribile passato e prima ne verrò fuori;
- più cerco di prevedere tutte le possibilità, più sarò preparato ad affrontare le situazioni;
- più mi concentro su me stesso e più sarò capace di controllare le mie emozioni;
- più rievoco le figuracce che ho fatto e più sarò pronto a gestire le successive occasioni sociali;
- più mi rimprovero per gli errori fatti, più troverò la motivazione per cambiare;
- più mi preoccupo, maggiore sarà la probabilità di successo.
Il motivo per cui questo metodo serve solo ad incrementare la nostra ansia, è che il pensiero ruota per tempi lunghissimi intorno ai nostri errori, inefficienze, inadeguatezze, pericoli futuri, insomma, tutto ciò che di negativo c’è nella nostra vita passata, presente e futura. Finiamo così per rinforzare il giudizio negativo su noi stessi, sul mondo e sulla vita. Tutto ciò non ci aiuta né a stare meglio, né ad essere più efficaci.
La tendenza a rimuginare è più diffusa di quanto si pensi e bisogna dire che quando è limitata nel tempo, non è sempre completamente negativa: a volte ci è utile prepararci a una sfida importante cercando di prevedere quello che ci aspetta, oppure riflettere sui propri errori per apprendere da essi. A segnalarci che abbiamo superato il limite, interviene l’ansia e la netta sensazione di essere in un circolo vizioso logorante, che non ci aiuta nell’azione, anzi ci frena, ci inibisce e, incrementando le nostre paure, ci paralizza. Ci si sente sopraffatti dalla preoccupazione, che finisce per occupare tutto lo spazio mentale, impedendoci di concentrarci nello studio e nel lavoro, godere appieno di un’attività di svago o apprezzare un momento di riposo. Nei casi più gravi la preoccupazione può toglierci il sonno.
Chi porta questo problema in una psicoterapia, spesso segnala di aver provato tutti i sistemi possibili per “smettere di pensare”, senza riuscire. Eppure esiste la possibilità di indagare questa problematica alla luce dei più recenti modelli metacognitivi e applicare strategie capaci di approcciarsi ai propri pensieri in modo diverso, più leggero, libero e costruttivo.
Per un consulto su questo tipo di esperienza mentale, è possibile richiedere una valutazione diagnostica e un aiuto per un dialogo interno più costruttivo.
Dottoressa, è il mondo che non va
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in blog.
Dottoressa, è il mondo che non va
Per la serie “spiegazioni controproducenti”: L’IDEA DI UN MODO OSTILE.
Quando abbiamo un problema che ci procura un qualche disagio psicologico, la prima operazione che fa il nostro cervello è immaginare le cause del problema stesso: dobbiamo darci delle spiegazioni, se vogliamo risolverlo e toglierci da quella situazione. Questa operazione è fondamentale e a seconda delle risposte che ci daremo, sceglieremo soluzioni diverse, alcune delle quali utili per risolvere il problema, altre invece inutili se non addirittura controproducenti. Se la spiegazione che ci diamo è disfunzionale o non aderente alla realtà, i nostri tentativi di soluzione del problema saranno con ogni probabilità fallimentari.
Una classica distorsione del pensiero consiste nel ritenere che la radice del problema risieda nel mondo là fuori, con la totale esclusione di una responsabilità da parte nostra. Questo tipo di prospettiva può prendere forme diverse:
- l’idea di attrarre solo persone cattive, violente, manipolatrici o inadatte, colpevoli di farci soffrire,
- l’idea che il problema sia di essere una persona troppo buona, destinata a essere schiacciata in un mondo di persone egoiste, menefreghiste e senza scrupoli,
- l’idea che gli altri abbiano sempre cattive intenzioni nei nostri confronti, per cui non abbiamo scelta se non difenderci isolandoci o contrattaccando,
- l’idea di essere sfortunati e quindi colpiti in maniera elettiva da una sorte avversa,
- l’idea di essere nati con un destino più duro e difficile degli altri, i quali avrebbero invece tutti una vita più agevolata.
La sostanza non cambia: il problema non sono io.
Una delle conseguenze di questo tipo di logica, è che i propri comportamenti disfunzionali vengono visti come una naturale e inevitabile reazione a quanto ci accade. Insomma la conclusione è: “io non ci posso fare nulla.”
Tutto ciò sembra salvaguardare il nostro amor proprio, come se ci alleggerissimo in un qualche modo, ma solo in apparenza questo è buono per noi. Sposare questa prospettiva significa infatti scivolare nella depressione dovuta al senso di impotenza, lo scoraggiamento e una visione completamente negativa del mondo. Si diventa sempre più soli perché i rapporti personali tendono ad essere compromessi dalla sfiducia e dalla diffidenza. Il disagio è spesso collegato con lunghe e improduttive rimuginazioni di rabbia.
Finché non si riesce a mettere a fuoco il proprio ruolo in quanto accade, nei termini di almeno una parziale responsabilità, non si può nemmeno riuscire a immaginare di avere un potere di cambiamento e una reale capacità di modificare l’esito.
Facciamo un esempio: se non raggiungo un obiettivo, come superare con successo un colloquio di lavoro, ho due possibilità: pensare che la sfortuna si accanisce su di me e quindi non troverò mai un lavoro, con la conseguenza di scoraggiarmi e rinunciare a presentarmi ad altri colloqui. Oppure pensare che trovare un lavoro non è facilissimo, però magari anche il mio modo di pormi non è stato efficace. Allora, invece di scoraggiarmi, potrò lavorare per migliorare la mia capacità di presentarmi, mantenere il contatto oculare col mio interlocutore, spiegare con sicurezza i miei punti di forza, prepararmi meglio su determinate tematiche, fare domande pertinenti, ecc. Ecco che riconoscere la propria responsabilità apre le porte ad un cambiamento che aumenterà le probabilità di successo.
Un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale può facilitare questo passaggio e ridare senso di efficacia, fiducia e potere di cambiamento, interrompendo circoli viziosi improduttivi.
Dottoressa, sarà il mio carattere?
Scritto da Elena Grilli il . Pubblicato in blog.
Dottoressa, sarà il mio carattere?
Per la serie “spiegazioni controproducenti”: L’IDEA DI UN CARATTERE INNATO.
Quando si affronta un percorso di psicoterapia, come è giusto che sia, la persona che cerca aiuto per le proprie difficoltà ha già elaborato tra sé e sé delle spiegazioni circa la natura e le cause del proprio problema. Avrà anche già tentato delle strategie per risolverlo, senza riuscire o riuscendo solo in parte, il che giustifica la richiesta d’aiuto professionale. Gli esseri umani hanno questa qualità: osservano se stessi e il proprio comportamento e ne traggono delle conclusioni. La natura di queste ultime può essere funzionale o disfunzionale, a seconda che permetta di risolvere il problema o meno. Vi sono una serie di luoghi comuni e di pensieri ricorrenti che spesso sono di ostacolo a chi sta cercando di apportare un cambiamento in positivo alla propria vita. In questo articolo analizziamo il primo: l’idea di essere portatori di un “carattere” particolare.
La storia della psicologia ha contribuito a questa rappresentazione, approfondendo nel tempo concetti quali: “temperamento”, “costituzione”, “carattere”, “tipo psicologico” e infine “personalità”. Abbiamo la percezione di essere un complesso unitario, un tutt’uno con caratteristiche peculiari, che in qualche modo determina il nostro modo di agire e di reagire. Osserviamo il nostro comportamento e abbiamo la sensazione che ci siano delle costanti, delle modalità tipiche che ci definiscono.
Il concetto di “carattere” è uno dei più potenti ostacoli ad un percorso di psicoterapia che io abbia mai incontrato.
Esso infatti presuppone una base stabile e immodificabile, almeno in parte, che rende pessimisti circa la possibilità di un cambiamento, frena l’intraprendenza e boicotta l’impegno profuso verso gli obiettivi che ci si pone. Ogni insuccesso viene letto come la prova di una costituzionalità o peggio, di un destino immutabile. I successi, viceversa, saranno con più probabilità letti come il risultato del caso o della fortuna o della benevolenza altrui, qualcosa che si raggiunge nonostante le proprie tare.
Tutto è basato su un fraintendimento di fondo. È senz’altro vero che ognuno di noi possiede delle tipiche modalità di reagire al proprio ambiente, che tendiamo a ripetere. Nel percorso di vita sperimentiamo strategie che possono anche funzionare in determinati momenti (ad es. per ottenere amore, riconoscimento, conferme, attenzione, lodi, benefici materiali, intimità, ecc.) e ovviamente tenderemo a riproporle, attraverso un banale meccanismo di apprendimento. Tali strategie possono in seguito rivelarsi disfunzionali oppure insufficienti. L’errore sta nel ritenere che queste modalità ripetute tali e quali nel tempo siano definite da una sorta di impronta genetica o familiarità che le definisce e le perpetua. Se si è in questo pensiero, è improbabile valutare di intraprendere un percorso di crescita personale, oppure sì, ma senza crederci troppo. Si chiude il discorso dicendo a se stessi: “io sono così, punto” e arrendendosi a qualcosa che viene percepito come un muro di gomma contro il quale è inutile scagliarsi.
“Sono fatto così”, “ci sono nato”, “è più forte di me”, sono delle varianti dello stesso concetto, che porta a concludere: “Che ci posso fare? Nulla.”
La chiave sta nel rovesciare questa prospettiva, basandosi appunto sul concetto di apprendimento. Tutto ciò che è stato costruito attraverso l’esperienza, può essere in qualunque momento accantonato nel momento in cui si fanno esperienze diverse che permettono l’apprendimento di nuove abilità. Questo è possibile lungo tutto l’arco della vita. La probabilità di riuscita risiede proprio nella capacità di mettere in discussione l’esistenza di un carattere che non saremo mai in grado di demolire e mettere a fuoco invece obiettivi realistici verso cui impegnarsi con fiducia.
Il successo di una psicoterapia non dipende mai da caratteristiche intrinseche del paziente, ma dall’impegno che profonde con maggiore o minore determinazione verso un obiettivo.
La scelta di un approccio psicoterapeutico comportamentista sostiene questo tipo di logica, perché accantona le dotte elucubrazioni e le inverosimili interpretazioni, per concentrarsi sulla concretezza del cosa fare, come gestire, quale abilità si possono rinforzare, allargando la gamma delle opzioni a propria disposizione invece di chiudersi all’angolo.