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Autore: Elena Grilli

La reazione psicologica ai disastri

La reazione psicologica ai disastri

Disastri sia naturali che non, portano con sé tutta una serie di conseguenze psicologiche anche in persone che non hanno vissuto in prima persona l’evento.

Il periodo successivo ad una catastrofe è sensibile dal punto di vista del peggioramento delle condizioni di salute mentale di una popolazione. Dopo il terremoto che ha distrutto Amatrice e zone limitrofe, è aumentato lo stato d’allerta in persone che vivono lontano da lì, e che hanno iniziato a sperimentare disturbi del sonno, agitazione al minimo rumore, oppure comportamenti disfunzionali, come il controllare ripetutamente e in modo ossessivo le scosse che si verificano giorno per giorno anche in altre parti del mondo (vi sono delle app che lo consentono). Il recente crollo del ponte Morandi a Genova potrebbe avere conseguenze simili, rispetto allo stato d’animo con cui si approccerà un cavalcavia d’ora in avanti. L’immagine del ponte crollato è anzi un’immagine piuttosto rappresentativa di come un percorso di vita programmato possa essere distrutto in modo inatteso e impensabile.

Assistere alle scene di devastazione da un telegiornale può essere sufficiente ad innescare una serie di pensieri d’ansia e di rimuginazioni negative in persone che vivono anche a centinaia di chilometri dalla zona colpita. Il carattere improvviso, imprevedibile e devastante nelle conseguenze di questi eventi porta con sé una generale sensazione di assenza di controllo sulla propria vita e senso di impotenza. Il pensiero ruota intorno all’imprevedibilità con cui chiunque potenzialmente può essere colpito, in qualunque luogo e in qualunque momento.

La ricerca evidenzia anche un nesso tra i processi associati all’empatia e lo sviluppo e il mantenimento di sintomi d’ansia: più si è capaci di mettersi nei panni degli altri e più ci si proietta in un tipo di esperienza che non si è vissuta in prima persona.

Naturalmente, vi è una grande variabilità tra individui. A rendere più “resistenti” a queste conseguenze vi sono degli importanti fattori:

  1. le capacità adattive della persona;
  2. l’idea radicata di saper fronteggiare eventi avversi e la fiducia nella propria capacità di resistere;
  3. soprattutto, il sostegno sociale, la possibilità di confrontarsi, poter dire come ci si sente a una persona capace di offrire supporto.

Le persone che possiedono di meno queste caratteristiche sono maggiormente a rischio di sviluppare disturbi d’ansia che potrebbero inficiare la qualità della vita e sono anche le persone che più beneficiano di un intervento psicologico, tanto più efficace quanto più è precoce dopo un evento che ha minato il senso di controllo che ognuno di noi ha rispetto alla propria vita.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico qualificato.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema

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Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Le conseguenze psicologiche di eventi traumatici

Una minaccia alla vita o all’incolumità del corpo è spesso una condizione estrema in cui l’individuo può sperimentare impotenza e terrore.

Il trauma avviene quando l’azione è impossibile: né la resistenza né la fuga sono realizzabili e il sistema di difesa è sopraffatto. Questo può portare a cambiamenti durevoli e profondi negli stati di eccitazione fisiologica, nelle emozioni, nella cognizione e nella memoria.

Un evento ha maggiori probabilità di avere conseguenze traumatiche se:

  • Minaccia la sopravvivenza
  • Sopraggiunge in modo inaspettato
  • La persona si è sentita impreparata nel fronteggiarlo
  • Vi è stata una crudeltà deliberata da parte di qualcuno
  • E’ accaduto ripetutamente.

Il trauma, in particolare quando connesso con la crudeltà umana, viola l’autonomia della persona e la sua dignità, che si sente abbandonata da tutti e indegna di protezione, sfiduciata anche nei legami significativi. Da un lato, la paura che si possa ripetere l’evento traumatico spinge a ricercare protezione negli altri, dall’altro lato si può sperimentare terrore nel contatto con gli altri: paura sia a stare da soli che a stare con gli altri.

Ritornare a una vita serena è possibile contrastando l’isolamento, individuando strategie efficaci per rilassare le tensioni, prendendosi cura della propria salute anche con il sostegno di persone significative che siano capaci di ascolto empatico. Un aiuto professionale va però ricercato nei seguenti casi:

  • diventa sempre più difficile gestire la normale vita familiare, sociale e lavorativa
  • si sperimentano quotidianamente sensazioni intense di terrore o flashback dell’evento traumatico
  • per gestire le tensioni e stare meglio si inizia a ricorrere a droghe, alcol o altre forme di dipendenza
  • si sperimenta una forte difficoltà a creare o mantenere legami affettivi
  • per evitare situazioni che ricordano il trauma, la vita inizia ad essere pesantemente limitata
  • vi è una generale sensazione di assenza di controllo.
Un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale permetterà di affrontare le difficoltà connesse col trauma a livello dei pensieri, delle emozioni e dell’attivazione fisiologica.

Link alle risorse dell’American Psychological Association sul tema.

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Sostegno sociale e resilienza. Il progetto Abitare solidale

Sostegno sociale e resilienza. Il progetto Abitare solidale

Numerosi studi rilevano come il sostegno sociale abbia un ruolo cruciale nel mantenimento della salute fisica e psicologica.

Esso innalza la resistenza allo stress e riduce il rischio di sviluppare una psicopatologia, anche in seguito a eventi particolarmente avversi.

Si definisce “resilienza” il processo di adattamento positivo di fronte alle avversità. È tanto più rafforzata quanto più l’individuo ha accesso al sostegno fornito attraverso i legami sociali. Avere, in un momento di bisogno, una rete di familiari, amici, vicini, membri della comunità disponibili a fornire aiuto sia materiale che psicologico, previene ad esempio depressione e disturbi d’ansia.

Il sostegno sociale è definito attraverso due dimensioni:

  1. una dimensione strutturale, costituita dall’ampiezza della rete sociale e dalla frequenza delle interazioni;
  2. una dimensione funzionale, rappresentata dagli aspetti emotivi (ricevere amore, comprensione empatica, ecc.) e materiali (aiuto pratico, assistenza, sostegno economico).

La maggior parte degli studi che si sono occupati della relazione tra resilienza e sostegno sociale hanno individuato nella dimensione funzionale del sostegno sociale il miglior predittore della salute di una persona. Ad esempio, in seguito ad un vissuto traumatico come un disastro, una grave perdita o una violenza subita, un disturbo post-traumatico da stress è meno probabile tra chi percepisce nelle proprie relazioni sociali stima, rispecchiamento del proprio valore personale, oppure consigli su come fronteggiare la difficoltà. Questo perché la persona diventa più fiduciosa circa la propria capacità di farcela e più attiva nel gestire e superare stress ambientali anche rilevanti.

Il processo diventa poi circolare, quando la persona restituisce positivamente all’ambiente circostante e alla comunità che gli è stata di sostegno, rimettendo in circolo le proprie capacità e risorse, che invece di venire “schiacciate” o annullate in meccanismi patologici che le bloccano, vengono valorizzate dal contesto e messe a loro volta al servizio di esigenze altrui.

Benché però vi siano solide evidenze scientifiche che illustrano bene questi meccanismi, vi è una relativa povertà di esperienze che facciano leva su di essi per innalzare la salute fisica e psicologica di una comunità.

Per questo motivo un progetto come “Abitare solidale” è davvero pionieristico in Italia. Sviluppato fin dall’inizio dall’associazione AUSER, e sperimentato in alcune città come Firenze, approda ora nelle Marche, a Osimo, coinvolgendo però vari territori della provincia di Ancona.  L’obiettivo è “l’attivazione di percorsi di coabitazione tra anziani e non solo, residenti in case con più di una camera da letto, e quanti abbiano bisogno di alloggio e vivano una situazione di momentanea difficoltà. Un rapporto di convivenza basato su un patto abitativo che prevede un reciproco scambio di servizi, in sostituzione del tradizionale contratto d’affitto.” Va insomma ad intervenire su difficoltà individuali di tipo materiale (bisogno di una casa, bisogno di assistenza, solitudine) che hanno anche un potente impatto sul piano psicologico, in termini di vulnerabilità a depressione e non solo.

Sebbene infatti possa sembrare un banale accoppiamento tra il bisogno di una casa da un lato e il bisogno di assistenza o compagnia dall’altro, il progetto di social housing ha inevitabilmente una ricaduta più ampia: la costruzione di una comunità più coesa e solidale. Incide infatti direttamente e indirettamente su aspetti come: i legami sociali e affettivi, la capacità di rispondere empaticamente al bisogno, la responsabilità individuale e collettiva, la messa in circolo di capacità e risorse personali, la salute fisica e psicologica, la riduzione del rischio di psicopatologie, la resilienza, appunto.

Si tratta di un modello di vita sociale basato sulla reciprocità, che mette al centro la persona e valorizza i rapporti. Con questo spirito, e consapevole della potente valenza psicologica di questo percorso, collaborerò al progetto con entusiasmo, in quanto referente per l’associazione Donne e Giustizia, partner di AUSER Marche e AUSER Osimo nel progetto “Abitare solidale nelle Marche“.

Per le donne che hanno necessità di fuggire da un contesto familiare violento, questo progetto potrebbe essere una importante risorsa, se si considera che il principale ostacolo al percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne è proprio di tipo economico. In altre parole, molte donne che scelgono di restare con un partner violento lo fanno spesso perché non hanno alternative abitative.

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Depressione al femminile

Depressione al femminile

La ricerca ha più volte evidenziato che le donne sono più vulnerabili alla depressione rispetto agli uomini. Analizziamo i motivi per cui questo è vero.

La predisposizione alla depressione è il prodotto della storia di vita: le persone che hanno appreso una visione pessimistica e il senso di impotenza di fronte agli eventi, hanno una maggiore probabilità di incorrere in una sintomatologia depressiva, di solito in seguito a eventi cosiddetti “precipitanti”, cioè situazioni problematiche, difficili o critiche che richiedono capacità di problem solving e di azione tenace, perseverante, efficace. Di fronte a questo tipo di stress, gli individui più predisposti alla depressione rispondono in modo inadeguato e inefficace, fallendo nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le convinzioni pessimistiche della persona e il suo senso di impotenza si rafforzano in seguito al fallimento, e la probabilità di ritrovarsi in una nuova situazione di stress aumenta. A questo punto diventa un circolo vizioso.

Si è tanto più protetti dal rischio di depressione quanto più alto è il livello di AUTOEFFICACIA, cioè la sensazione di essere efficaci nel gestire gli eventi, la fiducia di possedere le capacità di affrontare e risolvere un problema, la convinzione di poter raggiungere determinati risultati mettendo in atto precisi comportamenti. L’autoefficacia si apprende nella vita, attraverso l’osservazione del comportamento altrui, attraverso l’incoraggiamento ricevuto da bambini nell’affrontare sfide via via più difficili, attraverso l’esperienza di successi nel superare tali sfide.

Questo è vero sia per gli uomini che per le donne. Allora perché queste ultime sono maggiormente esposte al rischio di depressione? La biologia non sembra riuscire a dare spiegazioni in merito, mentre la psicologia sociale sì, andando ad investigare la socializzazione dei bambini e delle bambine.

Nella maggiore predisposizione femminile alla depressione ha un ruolo fondamentale il PATERNALISMO.

In un setting sociale altamente paternalistico, un individuo può contare su altri per risolvere un problema o affrontare una sfida di vita, evitando di assumersi in prima persona le responsabilità, con la conseguenza di avere ridotte opportunità di assumersi dei rischi e di perfezionare le abilità e le competenze necessarie per fronteggiare in prima persona le difficoltà. Questo avviene sia per i bambini che per le bambine, dai quali naturalmente non ci si aspetta che siano da soli in grado di gestire delle situazioni problematiche. Al crescere dell’età, tuttavia, le bambine e le ragazze permangono in un setting paternalistico per un tempo maggiore rispetto ai bambini e ai ragazzi, probabilmente sulla base di stereotipi che etichettano le femmine come più delicate, fragili e bisognose di aiuto e protezione. Mentre i maschi vengono più facilmente incoraggiati a confrontarsi con la realtà, assumersi rischi ed essere attivi, dalle femmine ci si aspetta maggiore cautela, passività e una minore capacità di cavarsela da sole. Il risultato è che queste ultime, di fronte ad un problema, vengono meno spesso incoraggiate a confrontarsi da sole, ottengono più facilmente informazioni e consigli sul da farsi o addirittura trovano qualcuno che si sostituisce a loro nell’azione. Anche da adulte le donne, secondo un codice non scritto di norme sociali, si suppone debbano essere protette e guidate, mentre si suppone che gli uomini siano più capaci ed esperti.

Come si può intuire, l’atteggiamento paternalista incide pesantemente sul senso di autoefficacia e sull’esperienza di vita delle donne, che effettivamente avranno una maggiore probabilità di dubitare delle proprie capacità, di percepirsi deboli, vulnerabili e fragili di fronte alla vita e quindi più predisposte alla depressione.

Naturalmente questo non è un destino inevitabile: la cultura sessista sta cambiando nel tempo, le donne hanno via via sempre più opportunità di mostrare il proprio valore e di costruirsi una percezione di sé diversa rispetto a decenni o secoli fa. Una percezione di forza e competenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, avere un confronto professionale per comprendere come questi aspetti possano aver influito sulla propria vita può essere importante.

Approfondimenti su tematiche di genere

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I benefici della vita da single

I benefici della vita da single

È opinione diffusa che le persone single sono destinate ad essere infelici e depresse nella loro vita. Ma è davvero così?

La pressione al matrimonio e al “vissero per sempre felici e contenti” l’abbiamo sentita tutti/e. Molta parte della produzione letteraria e cinematografica sembra suggerire esattamente questa idea: trovare l’amore della vita e sposarlo è rappresentato come il massimo della realizzazione personale e garanzia di felicità.  Ci sono anche molti studi scientifici che collegano il matrimonio con la salute ed il benessere delle persone.

La psicologa sociale Bella DePaulo, dell’Università della California, grazie alle sue ricerche iniziate negli anni ’90, infrange questa credenza diffusa. Ci sono molte persone che sono single, alcuni in attesa della “persona giusta”, ma altri felici della loro libera scelta di essere e rimanere tali.

Per prima cosa, essere single non vuol dire essere soli. Anzi. Le ricerche sembrano indicare che, mentre gli sposati tendono a relazionarsi soprattutto all’interno del proprio nucleo, i single appaiono più “connessi” con la famiglia allargata, gli amici, i vicini e i colleghi di lavoro.

Sul piano della realizzazione personale, i single sono maggiormente tesi alla ricerca di un lavoro pienamente gratificante e significativo per loro, oltre ad essere più propensi alle attività di volontariato.

È inoltre più facile che un single percepisca un senso di crescita psicologica e si sviluppi in quanto individuo, e dovendo cavarsela più spesso da solo, è più autosufficiente, con una maggiore fiducia in se stesso, e meno propenso a sperimentare momenti di scoraggiamento.

E quindi, sostiene DePaulo, “molte delle cose terribili che si dice debbano accadere ai single, non trovano riscontro nella ricerca.”

È vero che molte persone traggono benefici dal matrimonio. Tuttavia le persone sono diverse, e ciò che porta benefici ad alcuni, non ne porta ad altri. Insomma, non c’è uno status migliore dell’altro. La verità è che non esiste una strada maestra per la felicità e la vita dei single può essere davvero molto piacevole, intensa e piena di significato.

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Superare il trauma

Superare il trauma

L’esperienza di un evento traumatico può sconvolgere la vita di una persona, lasciandole un senso di vulnerabilità e di paura. Ma recuperare serenità e fiducia è possibile.

Si può definire trauma un evento percepito come estremamente minaccioso a cui la persona ha risposto con un livello di paura intenso, senso di impotenza e orrore.

Tipici eventi traumatici possono essere: esperienze di guerra, aggressioni fisiche o sessuali, assistere alla morte di qualcuno in un incidente, oppure nel corso di terremoti, alluvioni, incendi, ecc. Spesso ha a che fare col “vedere la morte in faccia”.

È importante sottolineare che il trauma è un fatto molto personale. Siamo noi a dare significato e peso a quello che ci succede, facendo sì che quello che è traumatico per qualcuno potrebbe essere una esperienza semplicemente negativa per qualcun altro. Questa variabilità ha che fare con il sistema di credenze e di valori di ciascuno e con le precedenti esperienze di vita. Vi è una variabilità anche nella capacità di recupero: alcune persone possono impiegare alcune settimane o mesi dopo l’incidente prima di tornare a condurre una vita soddisfacente anche con il sostegno di familiari e amici. Per altri invece il recupero non è così semplice e talvolta si può arrivare al Disturbo post-traumatico da stress.

Il Disturbo post-traumatico da stress origina dalla risposta fisiologica dell’organismo allo stress estremo, ma con una sintomatologia che si protrae nel tempo, anche quando la minaccia è cessata. Questo avviene perché quanto sperimentato ha la capacità di modificare la percezione di se stessi e del mondo. L’esperienza ribalta sia la percezione di un mondo bello e giusto, sia l’idea di se stessi, di essere forti, capaci e adeguati. A questo punto la persona vede ovunque il pericolo e sta costantemente in allerta, in guardia, sulla difensiva.

Questo può portare a difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, irritabilità, irrequietezza. Possono comparire pensieri intrusivi (immagini e ricordi dell’evento traumatico), incubi, flashback (rivivere l’evento come se stesse accadendo qui e ora). Infine vi possono essere comportamenti di evitamento di tutto ciò che può ricordare l’evento traumatico, allo scopo di limitare l’esperienza di ansia; di conseguenza si limita pesantemente la vita, ci si isola, si limitano attività precedentemente considerate piacevoli e si può andare verso la depressione.

La psicoterapia in questi casi può sostenere la rielaborazione dell’esperienza traumatica, rafforzare la capacità di far fronte a situazioni che spaventano e trasferire strategie di gestione dello stress.

Guarire in questi casi non significa dimenticare quanto accaduto e nemmeno avere la garanzia che non si proveranno più emozioni negative al ricordo dell’evento traumatico. Ma questo stress può diventare meno frequente e più gestibile, al punto da perdere il potere di controllare la vita di una persona. Guarire non significa nemmeno tornare esattamente come si era prima. Esperienze forti possono cambiare le persone in molti modi, non necessariamente negativi. Si può diventare più forti, più comprensivi, più equilibrati e aperti.

Un trauma non stabilisce un destino

La dott.ssa Grilli ha una esperienza pluriennale nella terapia in questo ambito, in particolare rispetto al Disturbo post traumatico sperimentato dalle vittime di aggressioni fisiche e sessuali o dai sopravvissuti a eventi catastrofici.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, un supporto psicologico qualificato può essere determinante.

Link alle risorse dell’American Psychological Association.

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Il ciclo dell’ansia

Il ciclo dell’ansia

L’ansia è una reazione normale e sana, ma potrebbe diventare cronica attraverso il meccanismo definito “ciclo dell’ansia”.

L’ansia costituita da una serie di cambiamenti nel corpo e nel modo di pensare e comportarsi che ci permette di fronteggiare e rispondere rapidamente a minacce e pericoli per la nostra vita.

Facciamo un esempio.

Stai attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali. A un certo punto vedi che un’auto sta sopraggiungendo velocemente e non accenna a rallentare per permetterti di completare l’attraversamento. Allora inizi a correre per metterti in salvo sul marciapiede qualche metro più in là. Il cervello rileva il pericolo e in automatico il corpo si attiva:

  • Il battito cardiaco accelera e la pressione del sangue aumenta;
  • La capacità del sangue di coagularsi aumenta, in preparazione ad una possibile lesione;
  • La sudorazione aumenta, per aiutare a raffreddare il corpo;
  • Una quantità di sangue è dirottata sui muscoli, che si tendono, pronti all’azione;
  • La digestione rallenta;
  • Diminuisce la produzione di saliva, causando secchezza delle fauci;
  • Il ritmo del respiro accelera, le narici e i passaggi di aria si dilatano, per far affluire velocemente più ossigeno;
  • Il fegato rilascia zuccheri, per fornire energia;
  • Gli sfinteri si contraggono per chiudere intestino e vescica;
  • Le risposte immunitarie si indeboliscono, il che è utile a breve termine per permettere una risposta massiccia all’immediato pericolo.

Tutto questo accade per permetterti di raggiungere velocemente il marciapiede ed evitare di venire investito.

Questa reazione, definita di “attacco-fuga”, è la stessa che sperimentiamo quando siamo in ansia, spaventati, preoccupati, agitati. Nel corpo puoi osservare alcune delle seguenti sensazioni (in misura maggiore o minore a seconda dell’entità della minaccia percepita):

  • Tremori;
  • Irrequietezza;
  • Tensione muscolare;
  • Sudorazione;
  • Fiato corto;
  • Tachicardia;
  • Tuffo al cuore;
  • Mani fredde e sudate;
  • Respiro affannoso;
  • Secchezza delle fauci;
  • Vampate di calore o brividi;
  • Nausea;
  • “Farfalle” nello stomaco.

Ora, la risposta del nostro corpo è identica, sia che la minaccia vada affrontata con uno sforzo fisico, sia che dobbiamo rispondere verbalmente a una critica aggressiva di un collega, oppure che temiamo una figuraccia parlando davanti a un pubblico, oppure che il medico ci dà una cattiva notizia sulla nostra salute, casi cioè in cui la soluzione non è certo combattere o mettersi a correre. La biologia è veramente di poco diversa da quella che caratterizzava i nostri antenati alle prese con un animale feroce. E perciò facciamocene una ragione, è così che funzioniamo.

A un certo punto però, può accadere qualcosa di più, alle persone più propense a preoccuparsi o ad allarmarsi eccessivamente. Osservando la propria reazione d’ansia, ne sono disturbati e iniziano a preoccuparsi per l’ansia stessa. Alcuni esempi di pensieri di preoccupazione:

  • Ancora una volta sto dimostrando di essere debole;
  • Sono troppo emotivo, non so affrontare le situazioni;
  • Vedendomi così, le persone penseranno che sono incapace;
  • Il cuore batte troppo velocemente … mi starà venendo un infarto?
  • Sono arrossito, che vergogna!

Ciò causa, naturalmente, una ulteriore attivazione del sistema attacco-fuga, portando ad un circolo vizioso. Se non si riesce a interrompere questo circolo, il problema d’ansia diventa cronico.

Desideri un aiuto per identificare il tuo ciclo dell’ansia e i fattori di mantenimento che lo tengono in vita?

Approfondisci i vari disturbi d’ansia

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La fibromialgia

La fibromialgia

La fibromialgia è un disturbo caratterizzato da dolore diffuso nella maggior parte del corpo, i cui gli aspetti psicologici non possono essere ignorati. A lungo si è dibattuto, fin dal suo riconoscimento nel 1990, se non sia da classificare piuttosto come disturbo psicosomatico, data la rilevanza della sintomatologia d’ansia e/o depressiva che spesso l’accompagna. L’eziologia ignota è il principale elemento che determina questa difficoltà di classificazione.

Chi soffre di fibromialgia ha i muscoli in costante tensione, il che provoca non solo dolore, ma anche rigidità che limita i movimenti, spossatezza, affaticamento per minimi sforzi, sonno mai profondo, ripetuti risvegli, stanchezza al mattino, oppure sindromi funzionali somatiche come la colite spastica. La maggior parte dei pazienti lamenta un livello di disabilità considerevole ed una diminuita qualità della vita.

La tensione muscolare si riflette a livello dei tendini che diventano dolenti in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della fibromialgia e vengono definiti “tender points”. Il dolore in questi punti è solo parte della sintomatologia, che può implicare anche altri sintomi sia fisici che cognitivi: affaticabilità, sonno non ristoratore, insonnia, colite spastica, emicranie, crampi addominali, debolezza, nausea, dolori al petto, fischi alle orecchie, vertigini, attenzione costante al dolore, drammatizzazione.

Se i fattori causativi della fibromialgia rimangono un punto di domanda, i fattori di mantenimento sono stati maggiormente esplorati alla luce della teoria di Melzack e Wall (Gate-control theory) e del modello biopsicosociale del dolore. In quest’ottica, il dolore è un fenomeno complesso e dinamico influenzato non solo dall’input sensoriale, ma anche da fattori cognitivi, emotivi, comportamentali, culturali e sociali. Ad esempio vi sono evidenze rispetto al ruolo della catastrofizzazione nel modellare l’esperienza di dolore contribuendo all’aumento della sua intensità percepita. La catastrofizzazione comporta rimuginazione sul dolore, sentimenti di impotenza e un orientamento generalmente pessimistico rispetto all’esperienza dolorifica e alle sue conseguenze. In questo senso è un elemento che sembra giustificare la frequente comorbidità tra fibromialgia e sintomatologia depressiva.

Accanto alle terapie farmacologiche che mirano alla riduzione del dolore, vi sono le terapie non farmacologiche. La letteratura internazionale sull’argomento riporta che un approccio multidisciplinare è in genere più efficace rispetto alle terapie singole.

Tra gli approcci alla fibromialgia maggiormente supportati empiricamente vi è la terapia cognitivo-comportamentale, che agisce nella direzione di evidenziare e correggere convinzioni e aspettative maladattive che mantengono ed esacerbano i sintomi e a modificare l’atteggiamento verso il dolore, incrementando le abilità di self-management e l’apprendimento di strategie di fronteggiamento dei sintomi.

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La manipolazione affettiva

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente “lavorare con le mani”, “influenzare una persona, farle fare ciò che vuoi.” È di fatto una forma di violenza psicologica e quando avviene all’interno di una relazione sentimentale può avere effetti deleteri sul benessere psicologico, sull’autostima e sulla libertà.

L’obiettivo più o meno consapevole della manipolazione è avere potere sull’altra persona, farla sentire sbagliata usando però modi gentili. Crea dipendenza, rende vulnerabili, porta a mettere in atto comportamenti che non si vorrebbero. Ed è difficile da riconoscere proprio perché mascherata dietro modi che non solo palesemente aggressivi o violenti.

Per diventare più capaci di riconoscerla, vediamo alcune forme che concretamente può prendere la manipolazione. Faccio presente che gli esempi riportati di seguito vedono l’uomo come manipolatore e la donna come vittima di questa manipolazione per due motivi: primo, perché è il caso più frequente (in un sistema ancora patriarcale, sono gli uomini ad essere incoraggiati ad avere potere su una donna e sono le donne a venire educate ad essere sottomesse e disponibili); secondo, perché le presenti riflessioni scaturiscono dal mio lavoro con le donne vittime di violenza ed è a partire dalle loro storie che ho estrapolato gli esempi. Tuttavia, è del tutto evidente che i ruoli potrebbero essere invertiti in alcuni casi e interessare anche le coppie omosessuali.

Esempi di manipolazione affettiva

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti sta dicendo che non vai bene

Il messaggio positivo, di amore, ha decisamente più peso sul piano emotivo, e permette di far passare l’altro messaggio: che hai qualcosa di sbagliato.

“Sei bruttina però ti amo lo stesso.”
“Mi piaci tanto, anche se sei cicciottella.”
“Ho un debole per te, sciocchina”.

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti fa capire che non ce la farai senza di lui oppure che nessun altro ti vorrà

Come sopra, lo zucchero indora la pillola amara: ti sta dicendo che sei rifiutabile, non amabile, indegna di affetto, incapace, inetta.

“Non ti amerà mai nessuno come ti amo io.”
“Non troverai mai nessuno come me.”
“Non ne combini una giusta … che faresti se non ci fossi io che mi preoccupo per te …”

Ti dice che ti ama, ma ti ricatta

Una potente manipolazione fa leva sull’attaccamento affettivo per ottenere qualcosa da te.

“Se mi ami quanto ti amo io, fai come dico.”
“Se tu continui a fare di testa tua, io sarò costretto a …”
“Dai, non uscire con la tua amica, stai con me. Scegli: o lei o me!”

Ti dice che ti ama, ma fa la vittima

Si tratta di un rovesciamento dei ruoli: porsi nella posizione di vittima sofferente, ma lo scopo è quello di ottenere controllo su di te, facendoti sentire in colpa.

“Io così non ce la faccio più, ti amo da morire, ma mi fai soffrire troppo!”
“Siete tutti contro di me, anche tu che dovresti amarmi non mi aiuti.”
“Se mi devi trattare così, è meglio che la faccio finita!”

Usa parole gentili, ma dice bugie, ti fa credere cose non vere, nega l’evidenza

Questo tipo di manipolazione mira a far vacillare la tua percezione della realtà, facendoti dubitare di te stessa. Più crescono i tuoi dubbi, più lui ottiene potere su di te.

“Ti sbagli, io non ho mai fatto quello che dici …”
“Come puoi lontanamente pensare che … non hai capito niente!”
“Hai frainteso, le cose non sono affatto andate così.”

Usa parole gentili, ma nega ogni responsabilità personale e alla fine la colpa è sempre tua

Il manipolatore è tipicamente una persona che non si assume responsabilità, non vede i propri errori e non li riconosce; cerca di convincerti che sei tu ad aver interamente provocato la situazione problematica di cui si sta discutendo.

“Se io faccio così, è perché tu …”
“Se non fosse per i tuoi problemi, potremmo essere più felici.”

Come capisco che sono vittima di manipolazione

Ascolto i miei sentimenti

Se mi sento spesso inadeguata, incapace, o in colpa; se sperimento frequentemente disagio, timori, dubbi su di me … c’è qualcosa che non va che merita di essere messo meglio a fuoco. In una relazione che funziona, infatti, sebbene possano esserci problemi, ci si valorizza a vicenda, si rispettano i sentimenti di entrambi, ci si conferma a vicenda, ci si rinforza.

Mi domando: lui mi porta a fare cose che non farei mai di mia volontà?

Voglio veramente fare quello che lui mi chiede? Sono sempre io che mi sacrifico? Ho del tempo libero per me, oppure è sempre tutto per lui? Come mi sento a fare scelte libere, sostenuta e valorizzata oppure in colpa? Rimettere a fuoco se stessi, il proprio punto di vista, i propri obiettivi è un potente antidoto contro la manipolazione.

Osservo come vanno a finire le discussioni

Riesco a dire le mie ragioni o no? Chi dei due fa un passo indietro: sempre io o anche lui a volte? Chi chiede scusa all’altro? Chi vince di solito? Se la valutazione è fortemente sbilanciata in suo favore ed è sempre lui ad avere la meglio per un motivo o per l’altro, il rapporto non è veramente alla pari. Forse sto cedendo un po’ troppo spesso?

Cosa posso fare?

  • Mi fido delle mie sensazioni, della mia intelligenza, della mia memoria. Sebbene a volte io possa sbagliare, non può essere che io mi sbagli sempre!
  • Mi prendo le mie responsabilità, ma non tutte le responsabilità. Nei problemi di coppia entrambi hanno un ruolo; se lui non è abbastanza maturo da prendersi le sue colpe, non ci sono le basi per venirne fuori.
  • Dico “no” se quello che mi viene chiesto non va bene per me. E non mi sento in colpa, perché è un mio diritto dire no. In una coppia va bene venirsi incontro, ma attenzione che non sia un processo unidirezionale!
  • Se ho dei dubbi, chiedo consiglio a persone di cui mi fido. Un punto di vista esterno può aiutarmi a riconquistare obiettività sulla situazione.
  • Valuto se continuare la relazione o no. È difficile che auto-sacrificarmi e mettermi in una posizione di subalternità mi possa rendere felice.

Se hai questo tipo di esperienza, non è escluso che stai vivendo all’interno di una relazione che può diventare maltrattante. Scopri come con un percorso di sostegno è possibile ottenere aiuto per fronteggiare la violenza e gli obiettivi che ci si può porre sul piano psicologico in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile avere un parere professionale in merito.

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Difendere i propri confini in quattro mosse

Difendere i propri confini in quattro mosse

I nostri confini rappresentano i limiti che poniamo a noi stessi e agli altri.

Non è sempre facile difendere il nostro confine, in particolare quando per il rapporto che ci lega, proviamo senso di colpa o timore di offendere l’altra persona. Potremmo sperimentare paura del rifiuto, oppure timore del confronto con l’altro, che potrebbe diventare conflitto. Finiamo così per accettare situazioni che non ci piacciono o che non ci fanno sentire a nostro agio.

  • Rispondi alle emergenze altrui come fossero le tue?
  • Dici dei “sì” che non vorresti veramente dire?
  • Condividi troppe informazioni e fatti personali, non riuscendo a gestire l’invadenza?
  • Oppure al contrario, rinunci a priori ad esprimere i tuoi bisogni ed essere ascoltato?

Può darsi allora che sia il caso di mettere a fuoco il tuo confine personale e iniziare a difenderlo. Stabilire un confine non è da maleducati. Può essere fatto in modo rispettoso e positivo. Il vantaggio per se stessi ha a che fare con la sicurezza e il benessere, la sensazione di integrità personale e una più solida consapevolezza del proprio valore.

Ma è anche il rapporto a trarne beneficio. Assecondando e accontentando sempre l’altro, pensiamo erroneamente di non creare problemi e quindi di rafforzare una amicizia. Tuttavia non ci fa stare bene il fatto di sistematicamente sacrificare i bisogni personali per soddisfare quelli altrui. Ci si sente in balia degli altri e ci porta a provare rabbia, finendo alla lunga per logorare un rapporto invece di salvaguardarlo. Esplicitare i propri bisogni e i propri limiti favorisce invece l’instaurarsi di un rapporto franco, autentico, alla pari e basato sul rispetto reciproco.

1. Ascolta come ti senti

Le emozioni negative sono sempre il campanello d’allarme che qualcosa non va. Rabbia, frustrazione, paura, abbattimento: se ci sono, vanno ascoltate per cercare di capire da cosa derivano. Quali sono i tuoi bisogni in quel momento? Perché non ti senti a tuo agio?

Alcuni esempi: la richiesta di un amico a cui hai risposto “sì” ti è giunta sgradita? Qualcuno ha parlato al posto tuo? Il tuo interlocutore non ti ascolta? L’intensità della tua emozione ti dice se puoi passarci sopra perché è oggettivamente tollerabile per te, oppure se è il caso di agire per stabilire il tuo confine.

2. Decidi quello che desideri per te

Una volta preso contatto con le tue esigenze, è importante stabilire qual è lo spazio all’interno del quale ti senti a tuo agio e quali sono le regole e le condizioni da porre agli altri quando si muovono in questo spazio: come vuoi essere trattato, come vuoi che ci si rivolga a te, se e come vuoi essere toccato, quali sono i valori e gli obiettivi personali a cui non vuoi rinunciare, ecc.

Entra nell’ottica che è un tuo diritto farlo.

3. Stabilisci un obiettivo comunicativo e agisci

Stabilisci il confine con una comunicazione chiara e coincisa, senza giustificazioni inutili ed esprimendo le tue emozioni. Fai una richiesta precisa, nel rispetto della tua volontà, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri.

Si tratta di dire “no” alla richiesta? Stoppare un atteggiamento invadente? Affermare il tuo punto di vista? Fallo in modo rispettoso, comprensivo, ma fermo.

4. Ricorda che non sei responsabile della risposta dell’altra persona

A patto di essere educati e rispettosi, non abbiamo la responsabilità della reazione dell’altro. Anche se la risposta non dovesse essere positiva, questo non è sufficiente ad annullare il tuo bisogno. Aggiusta il tiro magari, ma non indietreggiare.

E se anche accadesse che l’altro non mostra la volontà di considerare quello che gli stai dicendo e continua a violare il tuo confine, è comunque importante parlare; ha a che fare col rispetto che abbiamo per noi stessi. Se queste violazioni continuano nonostante le tue comunicazioni, considera che potresti avere a che fare con una persona violenta e prevaricatrice; valuta se non sia il caso di interrompere la relazione per proteggere la tua integrità.

Stabilire confini è un processo, attraverso il quale si diventa gradualmente più capaci. Non rinunciare se un tentativo fallisce. Apprendi dall’esperienza. Ricorda: non è mai troppo tardi per accorgersi che un confine merita di essere eretto. Ad esempio ci si può rendere conto ad un certo punto di aver condiviso troppe informazioni riservate a un nuovo collega di lavoro o che un’amica si sta comportando in modo un po’ squalificante nei tuoi confronti. Non è mai tardi per agire nella direzione di proteggere il proprio confine. 

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