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Superare il trauma

Superare il trauma

L’esperienza di un evento traumatico può sconvolgere la vita di una persona, lasciandole un senso di vulnerabilità e di paura. Ma recuperare serenità e fiducia è possibile.

Si può definire trauma un evento percepito come estremamente minaccioso a cui la persona ha risposto con un livello di paura intenso, senso di impotenza e orrore.

Tipici eventi traumatici possono essere: esperienze di guerra, aggressioni fisiche o sessuali, assistere alla morte di qualcuno in un incidente, oppure nel corso di terremoti, alluvioni, incendi, ecc. Spesso ha a che fare col “vedere la morte in faccia”.

È importante sottolineare che il trauma è un fatto molto personale. Siamo noi a dare significato e peso a quello che ci succede, facendo sì che quello che è traumatico per qualcuno potrebbe essere una esperienza semplicemente negativa per qualcun altro. Questa variabilità ha che fare con il sistema di credenze e di valori di ciascuno e con le precedenti esperienze di vita. Vi è una variabilità anche nella capacità di recupero: alcune persone possono impiegare alcune settimane o mesi dopo l’incidente prima di tornare a condurre una vita soddisfacente anche con il sostegno di familiari e amici. Per altri invece il recupero non è così semplice e talvolta si può arrivare al Disturbo post-traumatico da stress.

Il Disturbo post-traumatico da stress origina dalla risposta fisiologica dell’organismo allo stress estremo, ma con una sintomatologia che si protrae nel tempo, anche quando la minaccia è cessata. Questo avviene perché quanto sperimentato ha la capacità di modificare la percezione di se stessi e del mondo. L’esperienza ribalta sia la percezione di un mondo bello e giusto, sia l’idea di se stessi, di essere forti, capaci e adeguati. A questo punto la persona vede ovunque il pericolo e sta costantemente in allerta, in guardia, sulla difensiva.

Questo può portare a difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, irritabilità, irrequietezza. Possono comparire pensieri intrusivi (immagini e ricordi dell’evento traumatico), incubi, flashback (rivivere l’evento come se stesse accadendo qui e ora). Infine vi possono essere comportamenti di evitamento di tutto ciò che può ricordare l’evento traumatico, allo scopo di limitare l’esperienza di ansia; di conseguenza si limita pesantemente la vita, ci si isola, si limitano attività precedentemente considerate piacevoli e si può andare verso la depressione.

La psicoterapia in questi casi può sostenere la rielaborazione dell’esperienza traumatica, rafforzare la capacità di far fronte a situazioni che spaventano e trasferire strategie di gestione dello stress.

Guarire in questi casi non significa dimenticare quanto accaduto e nemmeno avere la garanzia che non si proveranno più emozioni negative al ricordo dell’evento traumatico. Ma questo stress può diventare meno frequente e più gestibile, al punto da perdere il potere di controllare la vita di una persona. Guarire non significa nemmeno tornare esattamente come si era prima. Esperienze forti possono cambiare le persone in molti modi, non necessariamente negativi. Si può diventare più forti, più comprensivi, più equilibrati e aperti.

Un trauma non stabilisce un destino

La dott.ssa Grilli ha una esperienza pluriennale nella terapia in questo ambito, in particolare rispetto al Disturbo post traumatico sperimentato dalle vittime di aggressioni fisiche e sessuali o dai sopravvissuti a eventi catastrofici.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, un supporto psicologico qualificato può essere determinante.

Link alle risorse dell’American Psychological Association.

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Il ciclo dell’ansia

Il ciclo dell’ansia

L’ansia è una reazione normale e sana, ma potrebbe diventare cronica attraverso il meccanismo definito “ciclo dell’ansia”.

L’ansia costituita da una serie di cambiamenti nel corpo e nel modo di pensare e comportarsi che ci permette di fronteggiare e rispondere rapidamente a minacce e pericoli per la nostra vita.

Facciamo un esempio.

Stai attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali. A un certo punto vedi che un’auto sta sopraggiungendo velocemente e non accenna a rallentare per permetterti di completare l’attraversamento. Allora inizi a correre per metterti in salvo sul marciapiede qualche metro più in là. Il cervello rileva il pericolo e in automatico il corpo si attiva:

  • Il battito cardiaco accelera e la pressione del sangue aumenta;
  • La capacità del sangue di coagularsi aumenta, in preparazione ad una possibile lesione;
  • La sudorazione aumenta, per aiutare a raffreddare il corpo;
  • Una quantità di sangue è dirottata sui muscoli, che si tendono, pronti all’azione;
  • La digestione rallenta;
  • Diminuisce la produzione di saliva, causando secchezza delle fauci;
  • Il ritmo del respiro accelera, le narici e i passaggi di aria si dilatano, per far affluire velocemente più ossigeno;
  • Il fegato rilascia zuccheri, per fornire energia;
  • Gli sfinteri si contraggono per chiudere intestino e vescica;
  • Le risposte immunitarie si indeboliscono, il che è utile a breve termine per permettere una risposta massiccia all’immediato pericolo.

Tutto questo accade per permetterti di raggiungere velocemente il marciapiede ed evitare di venire investito.

Questa reazione, definita di “attacco-fuga”, è la stessa che sperimentiamo quando siamo in ansia, spaventati, preoccupati, agitati. Nel corpo puoi osservare alcune delle seguenti sensazioni (in misura maggiore o minore a seconda dell’entità della minaccia percepita):

  • Tremori;
  • Irrequietezza;
  • Tensione muscolare;
  • Sudorazione;
  • Fiato corto;
  • Tachicardia;
  • Tuffo al cuore;
  • Mani fredde e sudate;
  • Respiro affannoso;
  • Secchezza delle fauci;
  • Vampate di calore o brividi;
  • Nausea;
  • “Farfalle” nello stomaco.

Ora, la risposta del nostro corpo è identica, sia che la minaccia vada affrontata con uno sforzo fisico, sia che dobbiamo rispondere verbalmente a una critica aggressiva di un collega, oppure che temiamo una figuraccia parlando davanti a un pubblico, oppure che il medico ci dà una cattiva notizia sulla nostra salute, casi cioè in cui la soluzione non è certo combattere o mettersi a correre. La biologia è veramente di poco diversa da quella che caratterizzava i nostri antenati alle prese con un animale feroce. E perciò facciamocene una ragione, è così che funzioniamo.

A un certo punto però, può accadere qualcosa di più, alle persone più propense a preoccuparsi o ad allarmarsi eccessivamente. Osservando la propria reazione d’ansia, ne sono disturbati e iniziano a preoccuparsi per l’ansia stessa. Alcuni esempi di pensieri di preoccupazione:

  • Ancora una volta sto dimostrando di essere debole;
  • Sono troppo emotivo, non so affrontare le situazioni;
  • Vedendomi così, le persone penseranno che sono incapace;
  • Il cuore batte troppo velocemente … mi starà venendo un infarto?
  • Sono arrossito, che vergogna!

Ciò causa, naturalmente, una ulteriore attivazione del sistema attacco-fuga, portando ad un circolo vizioso. Se non si riesce a interrompere questo circolo, il problema d’ansia diventa cronico.

Desideri un aiuto per identificare il tuo ciclo dell’ansia e i fattori di mantenimento che lo tengono in vita?

Approfondisci i vari disturbi d’ansia

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La fibromialgia

La fibromialgia

La fibromialgia è un disturbo caratterizzato da dolore diffuso nella maggior parte del corpo, i cui gli aspetti psicologici non possono essere ignorati. A lungo si è dibattuto, fin dal suo riconoscimento nel 1990, se non sia da classificare piuttosto come disturbo psicosomatico, data la rilevanza della sintomatologia d’ansia e/o depressiva che spesso l’accompagna. L’eziologia ignota è il principale elemento che determina questa difficoltà di classificazione.

Chi soffre di fibromialgia ha i muscoli in costante tensione, il che provoca non solo dolore, ma anche rigidità che limita i movimenti, spossatezza, affaticamento per minimi sforzi, sonno mai profondo, ripetuti risvegli, stanchezza al mattino, oppure sindromi funzionali somatiche come la colite spastica. La maggior parte dei pazienti lamenta un livello di disabilità considerevole ed una diminuita qualità della vita.

La tensione muscolare si riflette a livello dei tendini che diventano dolenti in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della fibromialgia e vengono definiti “tender points”. Il dolore in questi punti è solo parte della sintomatologia, che può implicare anche altri sintomi sia fisici che cognitivi: affaticabilità, sonno non ristoratore, insonnia, colite spastica, emicranie, crampi addominali, debolezza, nausea, dolori al petto, fischi alle orecchie, vertigini, attenzione costante al dolore, drammatizzazione.

Se i fattori causativi della fibromialgia rimangono un punto di domanda, i fattori di mantenimento sono stati maggiormente esplorati alla luce della teoria di Melzack e Wall (Gate-control theory) e del modello biopsicosociale del dolore. In quest’ottica, il dolore è un fenomeno complesso e dinamico influenzato non solo dall’input sensoriale, ma anche da fattori cognitivi, emotivi, comportamentali, culturali e sociali. Ad esempio vi sono evidenze rispetto al ruolo della catastrofizzazione nel modellare l’esperienza di dolore contribuendo all’aumento della sua intensità percepita. La catastrofizzazione comporta rimuginazione sul dolore, sentimenti di impotenza e un orientamento generalmente pessimistico rispetto all’esperienza dolorifica e alle sue conseguenze. In questo senso è un elemento che sembra giustificare la frequente comorbidità tra fibromialgia e sintomatologia depressiva.

Accanto alle terapie farmacologiche che mirano alla riduzione del dolore, vi sono le terapie non farmacologiche. La letteratura internazionale sull’argomento riporta che un approccio multidisciplinare è in genere più efficace rispetto alle terapie singole.

Tra gli approcci alla fibromialgia maggiormente supportati empiricamente vi è la terapia cognitivo-comportamentale, che agisce nella direzione di evidenziare e correggere convinzioni e aspettative maladattive che mantengono ed esacerbano i sintomi e a modificare l’atteggiamento verso il dolore, incrementando le abilità di self-management e l’apprendimento di strategie di fronteggiamento dei sintomi.

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La manipolazione affettiva

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente “lavorare con le mani”, “influenzare una persona, farle fare ciò che vuoi.” È di fatto una forma di violenza psicologica e quando avviene all’interno di una relazione sentimentale può avere effetti deleteri sul benessere psicologico, sull’autostima e sulla libertà.

L’obiettivo più o meno consapevole della manipolazione è avere potere sull’altra persona, farla sentire sbagliata usando però modi gentili. Crea dipendenza, rende vulnerabili, porta a mettere in atto comportamenti che non si vorrebbero. Ed è difficile da riconoscere proprio perché mascherata dietro modi che non solo palesemente aggressivi o violenti.

Per diventare più capaci di riconoscerla, vediamo alcune forme che concretamente può prendere la manipolazione. Faccio presente che gli esempi riportati di seguito vedono l’uomo come manipolatore e la donna come vittima di questa manipolazione per due motivi: primo, perché è il caso più frequente (in un sistema ancora patriarcale, sono gli uomini ad essere incoraggiati ad avere potere su una donna e sono le donne a venire educate ad essere sottomesse e disponibili); secondo, perché le presenti riflessioni scaturiscono dal mio lavoro con le donne vittime di violenza ed è a partire dalle loro storie che ho estrapolato gli esempi. Tuttavia, è del tutto evidente che i ruoli potrebbero essere invertiti in alcuni casi e interessare anche le coppie omosessuali.

Esempi di manipolazione affettiva

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti sta dicendo che non vai bene

Il messaggio positivo, di amore, ha decisamente più peso sul piano emotivo, e permette di far passare l’altro messaggio: che hai qualcosa di sbagliato.

“Sei bruttina però ti amo lo stesso.”
“Mi piaci tanto, anche se sei cicciottella.”
“Ho un debole per te, sciocchina”.

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti fa capire che non ce la farai senza di lui oppure che nessun altro ti vorrà

Come sopra, lo zucchero indora la pillola amara: ti sta dicendo che sei rifiutabile, non amabile, indegna di affetto, incapace, inetta.

“Non ti amerà mai nessuno come ti amo io.”
“Non troverai mai nessuno come me.”
“Non ne combini una giusta … che faresti se non ci fossi io che mi preoccupo per te …”

Ti dice che ti ama, ma ti ricatta

Una potente manipolazione fa leva sull’attaccamento affettivo per ottenere qualcosa da te.

“Se mi ami quanto ti amo io, fai come dico.”
“Se tu continui a fare di testa tua, io sarò costretto a …”
“Dai, non uscire con la tua amica, stai con me. Scegli: o lei o me!”

Ti dice che ti ama, ma fa la vittima

Si tratta di un rovesciamento dei ruoli: porsi nella posizione di vittima sofferente, ma lo scopo è quello di ottenere controllo su di te, facendoti sentire in colpa.

“Io così non ce la faccio più, ti amo da morire, ma mi fai soffrire troppo!”
“Siete tutti contro di me, anche tu che dovresti amarmi non mi aiuti.”
“Se mi devi trattare così, è meglio che la faccio finita!”

Usa parole gentili, ma dice bugie, ti fa credere cose non vere, nega l’evidenza

Questo tipo di manipolazione mira a far vacillare la tua percezione della realtà, facendoti dubitare di te stessa. Più crescono i tuoi dubbi, più lui ottiene potere su di te.

“Ti sbagli, io non ho mai fatto quello che dici …”
“Come puoi lontanamente pensare che … non hai capito niente!”
“Hai frainteso, le cose non sono affatto andate così.”

Usa parole gentili, ma nega ogni responsabilità personale e alla fine la colpa è sempre tua

Il manipolatore è tipicamente una persona che non si assume responsabilità, non vede i propri errori e non li riconosce; cerca di convincerti che sei tu ad aver interamente provocato la situazione problematica di cui si sta discutendo.

“Se io faccio così, è perché tu …”
“Se non fosse per i tuoi problemi, potremmo essere più felici.”

Come capisco che sono vittima di manipolazione

Ascolto i miei sentimenti

Se mi sento spesso inadeguata, incapace, o in colpa; se sperimento frequentemente disagio, timori, dubbi su di me … c’è qualcosa che non va che merita di essere messo meglio a fuoco. In una relazione che funziona, infatti, sebbene possano esserci problemi, ci si valorizza a vicenda, si rispettano i sentimenti di entrambi, ci si conferma a vicenda, ci si rinforza.

Mi domando: lui mi porta a fare cose che non farei mai di mia volontà?

Voglio veramente fare quello che lui mi chiede? Sono sempre io che mi sacrifico? Ho del tempo libero per me, oppure è sempre tutto per lui? Come mi sento a fare scelte libere, sostenuta e valorizzata oppure in colpa? Rimettere a fuoco se stessi, il proprio punto di vista, i propri obiettivi è un potente antidoto contro la manipolazione.

Osservo come vanno a finire le discussioni

Riesco a dire le mie ragioni o no? Chi dei due fa un passo indietro: sempre io o anche lui a volte? Chi chiede scusa all’altro? Chi vince di solito? Se la valutazione è fortemente sbilanciata in suo favore ed è sempre lui ad avere la meglio per un motivo o per l’altro, il rapporto non è veramente alla pari. Forse sto cedendo un po’ troppo spesso?

Cosa posso fare?

  • Mi fido delle mie sensazioni, della mia intelligenza, della mia memoria. Sebbene a volte io possa sbagliare, non può essere che io mi sbagli sempre!
  • Mi prendo le mie responsabilità, ma non tutte le responsabilità. Nei problemi di coppia entrambi hanno un ruolo; se lui non è abbastanza maturo da prendersi le sue colpe, non ci sono le basi per venirne fuori.
  • Dico “no” se quello che mi viene chiesto non va bene per me. E non mi sento in colpa, perché è un mio diritto dire no. In una coppia va bene venirsi incontro, ma attenzione che non sia un processo unidirezionale!
  • Se ho dei dubbi, chiedo consiglio a persone di cui mi fido. Un punto di vista esterno può aiutarmi a riconquistare obiettività sulla situazione.
  • Valuto se continuare la relazione o no. È difficile che auto-sacrificarmi e mettermi in una posizione di subalternità mi possa rendere felice.

Se hai questo tipo di esperienza, non è escluso che stai vivendo all’interno di una relazione che può diventare maltrattante. Scopri come con un percorso di sostegno è possibile ottenere aiuto per fronteggiare la violenza e gli obiettivi che ci si può porre sul piano psicologico in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile avere un parere professionale in merito.

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Difendere i propri confini in quattro mosse

Difendere i propri confini in quattro mosse

I nostri confini rappresentano i limiti che poniamo a noi stessi e agli altri.

Non è sempre facile difendere il nostro confine, in particolare quando per il rapporto che ci lega, proviamo senso di colpa o timore di offendere l’altra persona. Potremmo sperimentare paura del rifiuto, oppure timore del confronto con l’altro, che potrebbe diventare conflitto. Finiamo così per accettare situazioni che non ci piacciono o che non ci fanno sentire a nostro agio.

  • Rispondi alle emergenze altrui come fossero le tue?
  • Dici dei “sì” che non vorresti veramente dire?
  • Condividi troppe informazioni e fatti personali, non riuscendo a gestire l’invadenza?
  • Oppure al contrario, rinunci a priori ad esprimere i tuoi bisogni ed essere ascoltato?

Può darsi allora che sia il caso di mettere a fuoco il tuo confine personale e iniziare a difenderlo. Stabilire un confine non è da maleducati. Può essere fatto in modo rispettoso e positivo. Il vantaggio per se stessi ha a che fare con la sicurezza e il benessere, la sensazione di integrità personale e una più solida consapevolezza del proprio valore.

Ma è anche il rapporto a trarne beneficio. Assecondando e accontentando sempre l’altro, pensiamo erroneamente di non creare problemi e quindi di rafforzare una amicizia. Tuttavia non ci fa stare bene il fatto di sistematicamente sacrificare i bisogni personali per soddisfare quelli altrui. Ci si sente in balia degli altri e ci porta a provare rabbia, finendo alla lunga per logorare un rapporto invece di salvaguardarlo. Esplicitare i propri bisogni e i propri limiti favorisce invece l’instaurarsi di un rapporto franco, autentico, alla pari e basato sul rispetto reciproco.

1. Ascolta come ti senti

Le emozioni negative sono sempre il campanello d’allarme che qualcosa non va. Rabbia, frustrazione, paura, abbattimento: se ci sono, vanno ascoltate per cercare di capire da cosa derivano. Quali sono i tuoi bisogni in quel momento? Perché non ti senti a tuo agio?

Alcuni esempi: la richiesta di un amico a cui hai risposto “sì” ti è giunta sgradita? Qualcuno ha parlato al posto tuo? Il tuo interlocutore non ti ascolta? L’intensità della tua emozione ti dice se puoi passarci sopra perché è oggettivamente tollerabile per te, oppure se è il caso di agire per stabilire il tuo confine.

2. Decidi quello che desideri per te

Una volta preso contatto con le tue esigenze, è importante stabilire qual è lo spazio all’interno del quale ti senti a tuo agio e quali sono le regole e le condizioni da porre agli altri quando si muovono in questo spazio: come vuoi essere trattato, come vuoi che ci si rivolga a te, se e come vuoi essere toccato, quali sono i valori e gli obiettivi personali a cui non vuoi rinunciare, ecc.

Entra nell’ottica che è un tuo diritto farlo.

3. Stabilisci un obiettivo comunicativo e agisci

Stabilisci il confine con una comunicazione chiara e coincisa, senza giustificazioni inutili ed esprimendo le tue emozioni. Fai una richiesta precisa, nel rispetto della tua volontà, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri.

Si tratta di dire “no” alla richiesta? Stoppare un atteggiamento invadente? Affermare il tuo punto di vista? Fallo in modo rispettoso, comprensivo, ma fermo.

4. Ricorda che non sei responsabile della risposta dell’altra persona

A patto di essere educati e rispettosi, non abbiamo la responsabilità della reazione dell’altro. Anche se la risposta non dovesse essere positiva, questo non è sufficiente ad annullare il tuo bisogno. Aggiusta il tiro magari, ma non indietreggiare.

E se anche accadesse che l’altro non mostra la volontà di considerare quello che gli stai dicendo e continua a violare il tuo confine, è comunque importante parlare; ha a che fare col rispetto che abbiamo per noi stessi. Se queste violazioni continuano nonostante le tue comunicazioni, considera che potresti avere a che fare con una persona violenta e prevaricatrice; valuta se non sia il caso di interrompere la relazione per proteggere la tua integrità.

Stabilire confini è un processo, attraverso il quale si diventa gradualmente più capaci. Non rinunciare se un tentativo fallisce. Apprendi dall’esperienza. Ricorda: non è mai troppo tardi per accorgersi che un confine merita di essere eretto. Ad esempio ci si può rendere conto ad un certo punto di aver condiviso troppe informazioni riservate a un nuovo collega di lavoro o che un’amica si sta comportando in modo un po’ squalificante nei tuoi confronti. Non è mai tardi per agire nella direzione di proteggere il proprio confine. 

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Come lo stress influenza la tua salute

Come lo stress influenza la tua salute

Questo articolo è una traduzione realizzata da Elena Grilli di una risorsa messa a disposizione da APA, American Psychological Association.

Stress: Tutti l’abbiamo provato. A volte lo stress può essere una forza positiva, che ci motiva a fare bene in una performance al pianoforte o in un colloquio di lavoro. Ma spesso – come quando siamo imbottigliati nel traffico – è una forza negativa. Se si sperimenta stress per un periodo di tempo prolungato, può divenire cronico, a meno che non si decida di correre ai ripari.

UNA REAZIONE FISIOLOGICA

Vi siete mai trovati con le mani sudate ad un primo appuntamento o col cuore in gola guardando un film dell’orrore? Se sì, allora siete in grado di sperimentare stress nella mente e nel corpo.

Questa risposta automatica si è sviluppata nei nostri antenati come modo per proteggersi dai predatori e altre minacce. Di fronte al pericolo, il corpo ingrana la marcia: viene inondato da ormoni che accelerano il battito cardiaco e aumentano la pressione sanguigna. Per prepararsi ad affrontare la situazione, il corpo si attiva.

Oggi non corriamo più il pericolo di essere divorati, ma sicuramente ci confrontiamo con innumerevoli sfide ogni giorno (come rispettare scadenze, pagare i conti e destreggiarsi coi figli) che fanno reagire il nostro corpo esattamente allo stesso modo. Come conseguenza, il nostro naturale sistema di allarme – la risposta “attacco o fuga” – può essere e rimanere attivato. E questo può avere serie conseguenze sulla nostra salute.

FOCOLAI DI TENSIONE

Anche stress minori e di breve durata possono avere un impatto. Potremmo avere il mal di stomaco prima di una presentazione, ad esempio. Stress più acuti, legati a un evento come un terremoto o un attacco terroristico, hanno naturalmente un impatto molto maggiore.

Diversi studi hanno evidenziato come questi improvvisi stress – in particolare se collegati con l’emozione della rabbia – possono innescare un attacco cardiaco, provocare aritimie e perfino condurre alla morte. Questo accade fondamentalmente a persone che hanno già un disturbo cardiaco, tuttavia alcune persone non sanno di avere un problema finché uno stress acuto non causa l’infarto o altri problemi.

STRESS ACUTO

Quando lo stress inizia ad interferire con la nostra vita quotidiana per un periodo prolungato diventa anche più pericoloso. Maggiore è la durata, peggiore è la ricaduta per la salute. Si può sperimentare, ad esempio, affaticamento, difficoltà di concentrazione oppure irritabilità immotivata. Lo stress cronico causa inoltre un costante logorio al nostro corpo.

Lo stress può peggiorare problemi di salute pre-esistenti. In uno studio, ad esempio, circa la metà dei soggetti ha ridotto la gravità dei mal di testa cronici di cui soffriva dopo aver appreso modalità per arrestare la tendenza a catastrofizzare e a farsi sistematicamente pensieri negativi sul dolore, tendenza che per l’appunto produce stress. Lo stress cronico può inoltre causare malattia, sia per i cambiamenti che si producono nel corpo, sia per l’incremento di comportamenti quali il fumo o l’alimentazione eccessiva o altre cattive abitudini che le persone utilizzano per fronteggiare lo stress.

Lo sforzo lavorativo – alte richieste insieme a bassa autonomia decisionale – è associato a un più elevato rischio di disturbi coronarici. Altre forme di stress cronico, come la depressione e un basso livello di sostegno sociale, sono inoltre implicate in un più alto rischio cardiovascolare. E una volta che si è malati, lo stress può rendere più difficoltosa la guarigione. Un’analisi di studi passati, ad esempio, suggerisce che i pazienti cardiaci affetti dalla cosiddetta personalità “Tipo D” – caratterizzata da stress cronico – deve far fronte ad una più alta probabilità di prognosi negativa.

COSA SI PUÒ FARE

Ridurre i livelli di stress può non solo farci sentire meglio qui e ora, ma protegge anche la nostra salute a lungo termine.

In uno studio, i ricercatori hanno esaminato l’associazione tra “affettività positiva” – sentimenti come felicità, gioia, contentezza ed entusiasmo – e sviluppo di malattie coronariche nell’arco di un decennio. Lo studio ha trovato che per ogni incremento di un punto nell’affettività positiva su una scala da 1 a 5, la percentuale di malattie cardiache precipitava del 22%.

Lo studio non dimostra che aumentare l’affettività positiva diminuisce il rischio cardiovascolare, ma i ricercatori raccomandano comunque di ritagliarsi un po’ di tempo tutti i giorni per attività piacevoli.

Di seguito altre strategie per ridurre lo stress.

Identificare la causa dello stress. Monitora lo stato d’animo lungo tutta la giornata. Se ti senti stressato, scrivi la causa, i pensieri e l’emozione corrispondente. Una volta che sai cosa ti disturba, pensa a un modo per gestirlo. Questo potrebbe significare avere aspettative più ragionevoli su di sé e sugli altri, oppure chiedere aiuto per le responsabilità domestiche, attività di lavoro o altri compiti. Fai un elenco dei tuoi impegni, valuta le priorità e poi elimina ogni compito che non sia assolutamente essenziale.

Costruisci relazioni solide. Le relazioni possono essere una fonte di stress. La ricerca ha mostrato che le reazioni negative e ostili del proprio coniuge determinano cambiamenti immediati negli ormoni sensibili allo stress. D’altro canto le relazioni posso servire da valvola di sfogo. Rivolgiti a familiari o amici intimi e comunica loro che stai passando un periodo duro. Le persone possono offrire aiuto pratico e supporto, idee utili o anche semplicemente una prospettiva diversa da cui partire per contrastare le cause dello stress, qualunque esse siano.

Quando sei arrabbiato, allontanati. Prima di reagire, prendi tempo per riordinare le idee contando fino a 10. Poi riconsidera la questione.

Passeggiare o altre attività fisiche posso aiutare a liberarsi di emozioni negative. L’esercizio fisico aumenta la produzione di endorfine, il propulsore naturale del tuo umore. Impegnati in una passeggiata al giorno o altre forme di esercizio – un piccolo passo che può fare una grande differenza nel ridurre i livelli di stress.

Riposa la tua mente. Secondo l’indagine del 2012 dell’A.P.A., lo stress causa insonnia al 40% degli adulti. Per garantire un sonno di sette-otto ore come raccomandato, riduci la caffeina, elimina le distrazioni come la televisione o il computer dalla camera da letto e vai a dormire sempre alla stessa ora. La ricerca indica che attività come lo yoga o esercizi di rilassamento muscolare non solo aiutano a ridurre lo stress, ma aiutano anche il funzionamento del sistema immunitario.

Fatti aiutare. Se continui a sentirti sopraffatto, chiedi una consulenza psicologica al fine di apprendere modalità efficaci di gestione dello stress. Possono essere identificate e cambiate le situazioni o i comportamenti che contribuiscono al tuo stress cronico.

Fonte: How stress affects your health, a cura di APA, American Psychological Association Help Center

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un consulto.
Vai alla guida “Fare ciò che conta nei momenti di stress” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

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Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male.

Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male

Quando per affrontare un problema personale si decide di affidarsi a una psicoterapia, ci si trova di fronte a una difficile scelta. Di professionisti ce ne sono davvero tanti e con formazioni e approcci molto diversi tra loro. Non è escluso che non orientandosi bene in questo mare magnum, si possa perfino finire nello studio di un ciarlatano che non avrebbe nemmeno titolo per esercitare la psicoterapia, ma si sa ben pubblicizzare e vendere.
Allora ecco cinque consigli per affidarsi a uno/a psicoterapeuta senza cascare male.

Primo consiglio

Prima di affidarsi ad un professionista, la prima regola è accertarsi che sia effettivamente iscritto/a all’Albo degli psicologi. Se l’oggetto della consulenza riguarda la cura di disturbi psicopatologici, non è nemmeno sufficiente essere psicologi, è necessario avere acquisito il titolo di psicoterapeuta, che implica 4 anni di scuola di specializzazione in più. Questa informazione può essere acquisita tramite l’Ordine degli psicologi o dei medici (possono accedere alle scuole di psicoterapia sia i laureati in psicologia che i laureati in medicina), ad esempio inviando una mail alla loro segreteria.

Diffidare di chi si propone come molto empatico o capace a partire da una predisposizione all’ascolto e all’aiuto degli altri. La verità è che solo una adeguata e lunga formazione in psicoterapia è la base di una pratica qualificata.

Le terapie che funzionano non scaturiscono da capacità individuali innate, ma piuttosto da una solida preparazione su tecniche che hanno un fondamento scientifico, che sono riconosciute dalla comunità scientifica e che sono consolidate in decenni di pratica.

Secondo consiglio

Un bravo e onesto professionista è in grado di specificare per quali disturbi o problematiche il suo approccio è più indicato, e, per le problematiche di cui non si occupa, è in grado di orientare a forme di trattamento alternativo, più adatte ed efficaci in quel caso, informando il paziente dell’esistenza di queste opportunità.

Diffidare di terapie in cui si dà a intendere che i problemi e i disturbi psicologici scaturiscono tutti da una sola causa generale.

Ad esempio, ed è il caso più frequente, l’idea che se stiamo male è perché abbiamo subito nell’infanzia un qualche tipo di trauma (spesso di tipo sessuale), anche se magari nemmeno ce lo ricordiamo.

Parallelamente, è necessario diffidare di terapie che propongono la stessa identica tecnica terapeutica per tutti i casi.

Il paziente può avere in questi casi la sensazione che una diagnosi sia stata fatta un po’ frettolosamente, senza avere la possibilità di dire tutto quello che secondo lui/lei è rilevante, oppure la sensazione che il professionista cerchi di imporre le proprie convinzioni senza cogliere le differenze e le specificità di cui la persona è portatrice.

Terzo consiglio

Le terapie efficaci sono solitamente basate su precise tecniche volte ad acquisire abilità personali di fronteggiamento attivo di determinate situazioni e si focalizzano sulle problematiche attuali per rendere il paziente più efficace nel gestirle.

Diffidare delle terapie che si basano unicamente sul recupero dei ricordi, nell’idea che la guarigione avverrà per il solo fatto di aver ricordato.

Se anche è utile ricostruire fasi precedenti della vita al fine di comprendere i fattori predisponenti, causativi o precipitanti di un disturbo o di una difficoltà, la semplice rievocazione di fatti che risalgono all’infanzia non li farà svanire come per incanto. Questa evidenza è ormai consolidata all’interno della comunità scientifica.

Quarto consiglio

Il buon esito di una terapia dipende spesso da una buona alleanza terapeutica, cioè la sensazione che paziente e terapeuta hanno di lavorare nella stessa direzione e per gli stessi obiettivi, stabiliti dal paziente. Un bravo professionista è contento che il proprio paziente non sia passivo, ma attivo nel definire i propri obiettivi di crescita personale, che chieda informazioni precise sulle metodiche utilizzate e che espliciti i propri dubbi, perché questo coinvolgimento attivo del paziente solitamente è associato al successo della terapia.

Diffidare del professionista che impone i propri obiettivi, che si mostra seccato di fronte alle domande, infastidito dai dubbi, reticente nell’esplicitare le premesse teoriche da cui parte o le tecniche che sta utilizzando.

Quinto consiglio

Un paziente deve poter valutare in autonomia come si sente e i progressi che sta ottenendo. Soprattutto deve sentire di essere rispettato nelle proprie emozioni, convinzioni, valori e scopi.
Se si ha la sensazione di non venire ascoltati o di essere controllati, se si pensa che importanti decisioni della propria vita vengono prese dal terapeuta piuttosto che essere prese in prima persona, se la seduta di terapia assomiglia più a una chiacchierata tra amici e il paziente ha la sensazione che si sta procedendo a tentoni, questi sono campanelli d’allarme da non ignorare e che vanno prima possibile discussi.

Ascoltare se stessi e dire con franchezza al proprio terapeuta come ci si sente. In una buona terapia c’è sempre spazio per ascoltare e accogliere questi aspetti.

Buona crescita personale!

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Il perfezionismo

Il perfezionismo

Ma il perfezionismo, è sano e desiderabile perché assicura risultati elevati e grande affidabilità, oppure è autodistruttivo e conduce a delusioni, insoddisfazione e depressione?
Il perfezionista dà grande valore all’eccellenza e desidera fortemente raggiungere obiettivi importanti. Il suo amore per la perfezione, se combinato con la perseveranza e se sostenuto da abilità, può portare a grandi risultati.
Allora perché il perfezionismo è sovente un correlato di psicopatologie serie (depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari …)?

L’aspetto patologico risiede nel porsi standard personali eccessivamente elevati e irrealistici e, quello che è peggio, nel collegare in modo rigido il raggiungimento di tali standard alla valutazione di sé (autostima).

In altre parole, il perfezionista ritiene che il proprio valore personale risieda nel raggiungimento di questi standard particolarmente esigenti e che sarà accettato ed amato solo a condizione di fare perfettamente. Per questo motivo è iperattento agli errori, ognuno dei quali rappresenta ai suoi occhi un fallimento personale imperdonabile. Anche verso gli altri, tende ad essere giudice esigente, duro e punitivo, tanto quanto lo è verso se stesso.
Le sue azioni sono guidate dalla paura di sbagliare e di essere disapprovato, per cui paradossalmente rimanda continuamente o evita di confrontarsi con i compiti nei quali teme di fare fiasco, oppure controlla e ricontrolla in modo ossessivo quello che ha fatto allungando in modo esagerato i tempi di esecuzione di un compito, finendo per essere del tutto improduttivo.
Per lui è sempre tutto o niente, non riconosce il pregio e il merito di risultati intermedi o comunque sufficientemente buoni. Il che lo prostra facilmente in un vissuto di tristezza, vergogna, stress, indecisione, fallimento, dubbio, senso di colpa.

La base della bassa autostima del perfezionista sta appunto nell’irragionevolezza delle pretese verso se stesso e nell’idea che se non farà di più e meglio, perderà la stima delle persone.

Naturalmente esistono persone con una sana tendenza ad eccellere, che si distinguono dai perfezionisti patologici per le seguenti caratteristiche:
– Non collegano il proprio valore personale e la propria autostima al raggiungimento degli standard;
– Ritengono che il buon risultato porti soddisfazione personale, ma non ne hanno bisogno per ottenere l’amore e il rispetto degli altri;
– Sono attivi, creativi, entusiasti, sono contenti e si auto-congratulano anche per risultati intermedi;
– Vedono l’errore come un’occasione per apprendere e fare meglio la prossima volta, più che l’evidenza del proprio fallimento.
Esistono terapie efficaci per il trattamento del perfezionismo patologico, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, che, agendo su quell’insieme di credenze disfunzionali che lo tengono in vita, aiuta le persone a ritrovare il piacere di fare bene.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile approfondire in che modo il perfezionismo mina il proprio benessere psicologico.

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Depressione

Depressione

La depressione è un problema molto comune: la maggior parte delle persone si sente giù di umore, in particolare quando alle prese con fasi critiche della propria vita o con eventi stressanti.

Si stima che in Italia la depressione colpisca nell’arco della vita, circa l’11% della popolazione.

Un divorzio, una perdita di lavoro, problemi economici o un lutto sono esempi di eventi precipitanti la depressione. Ora però sappiamo che il nostro modo di pensare gioca un ruolo cruciale sul nostro umore.

Di seguito i principali segni e sintomi che si possono verificare in una condizione di depressione. Quando si è depressi, vi sono cambiamenti nel modo di pensare, sentirsi, comportarsi e nelle reazioni fisiologiche:

  • Tristezza, sensi di colpa, senso di disperazione;
  • Perdita di interesse o di entusiasmo;
  • Pianto o viceversa, totale incapacità a piangere;
  • Sentirsi soli anche quando si è in compagnia;
  • Irritabilità, rabbia, a partire da piccoli pretesti;
  • Stanchezza, spossatezza;
  • Agitazione, disturbi del sonno;
  • Cambiamenti rilevanti nel peso, nell’appetito e nel comportamento alimentare;
  • Perdita di autostima;
  • Previsioni future pessimistiche e negative;
  • Pensiero che tutto sia senza speranza;
  • Odio verso se stessi;
  • Difficoltà di memoria e di concentrazione;
  • Difficoltà a prendere decisioni;
  • Scoraggiamento, difficoltà ad iniziare o portare avanti attività.

Se si sperimentano alcuni di questi sintomi, la condizione può essere temporanea o sfociare in un disturbo cronico.

La terapia cognitivo-comportamentale è efficace nel trattamento della depressione e può fornire una valida alternativa al trattamento farmacologico, anche nelle forme più gravi del disturbo.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico finalizzato a un migliore tono dell’umore.

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Tecniche comportamentali al servizio della sicurezza

Tecniche comportamentali al servizio della sicurezza

Articolo di Elena Grilli pubblicato nel 2013 su “Psicoin”

Lavorando con donne che subiscono prolungate e reiterate violenze in una relazione sentimentale, emerge in modo sistematico la questione della sicurezza, minacciata e da tutelare, prima di qualunque altro intervento.

Anche le psicologhe e gli psicologi, coinvolti a vario titolo, hanno un ruolo importante nella tutela della sicurezza delle donne.

Tutte le esperienze internazionali mostrano che i paesi in cui il fenomeno della violenza domestica è contrastato con maggiore efficacia ed efficienza, non sono i paesi in cui vi sono le pene più elevate, ma quelli ad alta inclusione, tolleranza della diversità ed intolleranza verso la violenza. Dove la frequenza dei femminicidi è più basso, è dove chi si comporta in modo violento va incontro ad una reazione sociale di rifiuto e biasimo. Dove le donne sono più sicure, è dove l’intera collettività si fa carico della sua sicurezza. Rispetto a questo, è chiaro quale potrebbe essere il ruolo degli psicologi e delle psicologhe nella prevenzione e nel contrasto del fenomeno violento, in termini di sensibilizzazione, educazione alla pace, alla pro-socialità, alla comunicazione assertiva per risolvere i conflitti.

Vi è però un altro tipo di interventi che compete alle psicologhe e che tipicamente vengono attuati in un centro anti-violenza oppure in una casa rifugio. Si tratta di quel percorso volto a ricostruire cognitivamente un pensiero di sicurezza personale, che le donne vittime di abusi possono intraprendere per ricominciare a pensare a se stesse in termini di persone degne di vivere sicure e libere dalla violenza, premessa necessaria affinché loro stesse mettano in atto comportamenti di auto-protezione.

L’obiettivo che mi propongo è quello di illustrare come sia la stessa esposizione ripetuta alla violenza a produrre come risultato l’incapacità delle vittime ad auto-proteggersi. Inoltre cercherò di esporre i metodi e le tecniche che possono essere utilizzati per ripristinare questa capacità e le accortezze da utilizzare in una psicoterapia per salvaguardare la sicurezza di una vittima di violenza domestica.

La capacità di auto-proteggersi

A volte si rimane stupite, nel lavoro quotidiano con donne che hanno subito maltrattamenti, dalla facilità con cui queste si espongono a situazioni rischiose, inclusa la tendenza a ritornare dal proprio partner violento dopo esserne fuggite, una volta cessato lo stato d’allarme conseguente ad una grave aggressione.

Mentre soggiorna in una casa rifugio, Pamela (tutti i nomi sono ovviamente di fantasia) non solo accetta di incontrare l’ex compagno, ma gli affida i due figli per un pomeriggio per andare a prendere un gelato insieme, nonostante lui per intimorirla abbia più volte minacciato di fare del male anche ai bambini. Carolina, che ha subito dal marito violenze talmente sadiche da essere equiparate alle peggiori tecniche di tortura, decide di lasciare la casa rifugio per tornare da lui, perché questi continua a chiamarla, a dichiararle un amore totale e a fare promesse di cambiamento.

Fabiola sminuisce l’ultima feroce aggressione in cui ha rischiato di venire strozzata dal marito e più volte torna a casa sua per prendere delle cose che ha lasciato lì e che, dice, le servivano assolutamente. Carla, che ugualmente ha subito gravi violenze fin dall’inizio del proprio matrimonio, telefona al centro anti-violenza per disdire il successivo appuntamento, dichiarando che non è nulla, si tratta di cose di poco conto, problemini come ce ne sono in tutte le famiglie. Si tratta di alcuni esempi in cui il pensiero di sicurezza personale, per quella donna, non rientra fra le priorità.

In seguito ad un episodio di maltrattamento la richiesta d’aiuto è facilitata dalla reazione di paura innescata dal pericolo oggettivo che la donna deve fronteggiare. In questa fase è più facile per lei pensare alla fuga e alla interruzione definitiva del rapporto malsano. Non di rado, tuttavia, avviene un ripensamento per cui la donna decide di interrompere il percorso intrapreso, dichiara di non volersi più separare, ritira la denuncia, parla di quanto avvenuto normalizzando l’esperienza di abuso, come se fosse incapace di vedere la violenza che solo pochi giorni prima aveva attivato la richiesta d’aiuto. La donna potrebbe addirittura avere la sensazione che il contesto familiare sia rassicurante in quanto prevedibile, controllato, mentre è il mondo esterno ad essere pericoloso, richiestivo, difficoltoso.

Un elemento cruciale che porta queste donne a ragionare e comportarsi così è la sottovalutazione del rischio e la menomata capacità di correttamente decifrare determinate situazioni come pericolose per la propria incolumità. Due sono i principali fattori che concorrono a questa difficoltosa discriminazione del rischio: fattori culturali da un lato e fattori legati all’esperienza di violenza dall’altro.

Fattori culturali
La nostra cultura ci aiuta poco a discriminare tra un uomo affidabile e un uomo violento, tra una relazione sana e una abusante.

Attraverso il processo di socializzazione ci costruiamo una idea precisa di come dovrebbero essere un “vero uomo” e una “vera donna”. Gli stereotipi di genere ci fanno apparire come più appetibili gli individui che si avvicinano a quello stereotipo e meno attraenti quelli che se ne distanziano. Purtroppo per noi donne, gli stereotipi sono altamente ingannevoli. L’idea dominante di “uomo” è infatti corredata da tutta una serie di caratteristiche – duro, forte, poco incline alle emozioni, perfino un po’ brutale e possessivo – che paradossalmente sono i principali segnali d’allarme che all’inizio di una storia sentimentale potrebbero mettere in allarme una donna quando non è ancora coinvolta affettivamente e potrebbe essere più facile per lei stare alla larga da un partner potenzialmente pericoloso. In altre parole, proprio i tratti e i comportamenti che dovrebbero far scattare una reazione di allarme, sono gli stessi che la nostra cultura definisce in modo positivo, come piacevoli, rassicuranti, amabili, affascinanti. Capita così molto spesso che le donne fin dall’inizio di una relazione, accettino determinati comportamenti che sono invece vere e proprie mancanze di rispetto, semplicemente perché classificati – non solo da lei – come i modi in cui il “vero uomo” dovrebbe comportarsi. Film, canzoni, romanzi che abbiamo profondamente amato in effetti mostrano protagonisti maschili brutali o addirittura veri e propri teppisti come modelli attraenti.

Non solo: ci viene insegnato ad interpretare in chiave positiva anche il possesso e il controllo, che sono il principale movente di tutte le violenze sulle donne. Quante volte sentiamo associare il concetto di amore e quello di gelosia, come se fossero sovrapponibili, anzi come se la gelosia fosse indice e misura dell’amore.

Ascoltando i racconti delle donne vittime di violenza domestica, emerge che quasi nessuna di loro ha subito violenze gravi fin dall’inizio della relazione, quasi tutte all’inizio hanno interpretato come attraenti atteggiamenti che solo successivamente si sono esacerbati e sono sfociati in violenza vera e propria. Sono state attratte da lui perché appariva “forte”, “geloso di me”, “protettivo”, “innamorato al punto di fare follie”. Quando poi la violenza è esplosa, erano già coinvolte in una relazione significativa, magari erano già sposate e avevano figli, e a quel punto interrompere la relazione era già molto più difficile. Interrompere la relazione a questo punto, ce lo ricordano le cronache quotidiane, espone anche ad un maggiore rischio di femminicidio.

A volte gli stereotipi culturali ci ingannano talmente tanto da farci perdere di vista la reciprocità: si scivola così in una relazione totalmente controllante, in cui è uno dei due, l’uomo, a detenere il potere e l’altra, la donna, a subirlo. In fondo, non ci insegnano che l’uomo è cacciatore e la donna è la sua preda? L’idea culturalmente dominante di virilità contribuisce non poco, quindi, a intorpidire le capacità di reazione delle donne anche di fronte alle prime manifestazioni aggressive, rendendo così possibile l’inizio di un vero e proprio “intrappolamento”.

Fattori legati all’esperienza di violenza
Una volta intrappolata in una spirale di violenza, la capacità di discriminazione della violenza è destinata a ridursi ulteriormente, in conseguenza di meccanismi di adattamento al contesto violento. L’esposizione prolungata alla violenza produce come risultato un progressivo innalzamento della soglia di tolleranza per cui la donna gradualmente giustifica e tollera gradi crescenti di intensità della violenza. Attraverso meccanismi di minimizzazione, negazione ed auto-colpevolizzazione, in gran parte indotti dal maltrattante, le vittime vanno incontro ad una perdita della percezione della gravità e del reale pericolo.

In seguito ad una aggressione, il maltrattante darà la sua personale lettura dell’accaduto e il suo maggiore potere nella relazione gli consentirà di farla prevalere sulla percezione della donna. Minimizzerà la gravità della violenza e attribuirà la responsabilità alla vittima, giudicando il comportamento di lei come veramente grave (in termini di mancanza di rispetto, provocazione, negligenza, o altri comportamenti da punire).

A rendere il tutto più difficile è il fatto che il maltrattante è anche il partner sentimentale. Tipicamente, in un rapporto maltrattante, si alternano opposte modalità: alla violenza segue una modalità riparativa, fatta di seduzione, rassicurazione, manipolazione che da un lato intrappola la vittima nell’illusione di una felicità possibile, dall’altro la rende sempre più insicura rispetto alle proprie percezioni. Questo ribaltamento delle percezioni porta la donna a non ritenere necessario proteggersi, e anzi a colpevolizzarsi per il proprio comportamento, ritenendolo la causa della reazione violenta dell’altro.

Un altro meccanismo che altera la percezione del pericolo è di tipo fisiologico. Le esperienze di violenza che le donne hanno subito all’interno di una relazione intima hanno sempre almeno una implicazione: l’elevata attivazione fisiologica (arousal) in risposta alla ripetuta esposizione alla violenza fisica, sessuale e verbale. Ogni organismo che deve fronteggiare un pericolo o una minaccia, mette in atto una risposta d’emergenza (tra le altre cose: attivazione del sistema nervoso simpatico, rilascio di adrenalina e messa in tensione dei muscoli scheletrici). Questa esperienza viene comunemente definita “paura” ed è funzionale ad un comportamento di fuga o di difesa. Le donne che subiscono maltrattamenti familiari presentano questo tipo di risposta in modo continuo e ripetitivo a causa di una minaccia reale sempre presente e sempre pronta a scattare al minimo pretesto. È quindi come se l’attivazione fisica non cessasse mai, in uno stato d’allerta che è costante e che può essere alleggerito solo al prezzo di minimizzare o negare la violenza, meccanismi messi in atto dalle donne non solo in conseguenza del lavaggio del cervello del maltrattante: si tratta infatti di meccanismi di resistenza e adattamento al contesto violento che permettono alle donne di sopravvivere in una situazione in cui altrimenti il loro corpo andrebbe incontro ad un rapido esaurimento delle forze. Vivere in uno stato d’allerta incessante, con metabolismo innalzato e tensioni neuromuscolari sempre elevate, comporta un innalzato rischio di disturbi psicosomatici, ansia generalizzata, insonnia, conseguenze che comunque a lungo termine si verificano, ma che a breve termine possono essere alleviate appunto sdrammatizzando, riducendo il rischio percepito, normalizzando l’accaduto.

La percezione del rischio della vittima di violenza domestica cambia continuamente: è elevata subito dopo una aggressione violenta e si riabbassa successivamente per le dinamiche descritte. Anche qualora la donna venga messa in protezione in una casa rifugio, presupponendo quindi una emersione del problema della violenza e una attivazione della risposta istituzionale, è comunque possibile che possano verificarsi ritrattazioni oppure violazioni delle regole di sicurezza della casa rifugio, percepite come esagerate. In quest’ultimo caso, le figure a cui la donna ha chiesto aiuto (assistenti sociali, magistrati, Forze dell’Ordine, ecc.) possono arrivare a mettere in dubbio la sua credibilità, con effetti negativi anche sull’iter giudiziario.

In sintesi, fattori culturali inibiscono la capacità di discriminare comportamenti violenti, etichettandoli come amore e attaccamento e facilitando l’investimento affettivo in una relazione pericolosa; permanere per un certo tempo all’interno di un rapporto abusante, poi, riduce ulteriormente la discriminazione della violenza, fino a rappresentare come “normali” comportamenti che vanno dalla semplice mancanza di rispetto alla vera e propria minaccia per la vita.

Ricostruire la capacità di auto-proteggersi

Capire la risposta al maltrattamento, all’abuso e al controllo ci mette in grado di comprendere il trauma psicologico e il comportamento della donna finché è prigioniera della spirale violenza, che è illogico solo se decontestualizzato, in realtà adattivo nel contesto violento. Per questo motivo è necessario, prima di qualunque intervento psicoterapeutico finalizzato a superare il trauma dell’abuso e al re-empowerment, mettere la vittima in sicurezza e darle un tempo per abbandonare quelle modalità funzionali nel contesto violento, ma disfunzionali al di fuori.
In questa fase del percorso di uscita dalla violenza, alcune metodologie utili possono essere di tipo comportamentista.

Prevenire una aggressione
Ad un Centro anti-violenza può arrivare la richiesta di aiuto di una donna che, per ostacoli vari, non è in condizione di allontanarsi immediatamente dalla propria abitazione o dal proprio partner (non saprebbe dove andare, non ha un lavoro, ha paura di venire uccisa, prima di fuggire vuole attendere che un figlio termini l’anno scolastico, ha in casa un anziano da accudire, ecc.).

In questi casi, è possibile comunque educarla alla sicurezza, aiutandola a riconoscere gli antecedenti delle esplosioni violente e a mettere in atto le strategie che le danno una maggiore probabilità di sottrarsi alla violenza prima che prorompa in modo incontrollabile. La tecnica comportamentista per eccellenza è l’Analisi funzionale: attraverso la ricostruzione dei vari episodi di violenza, la psicologa individua gli antecedenti e le contingenze di rinforzo del comportamento violento.

La donna viene preparata a riconoscere i segnali d’allarme ed addestrata a mettere in atto la cosiddetta tecnica del “time-out”, sottraendosi alla situazione pericolosa prima che la rabbia di lui esploda. La strategia abitualmente utilizzata dalle donne è quella invece di rimanere, obbedire, assecondare, avvicinarsi a lui per ragionare, provare a calmarlo, strategia che a volte le ha effettivamente permesso di rabbonirlo, ma altre volte no. Tale strategia, che può talvolta essere funzionale a breve termine, è comunque sempre disfunzionale a lungo termine, perché fornisce un rinforzo al comportamento violento e dà alla donna una erronea convinzione di controllo sul comportamento di lui. Il time-out, invece, permette di sospendere l’erogazione del rinforzo al comportamento violento e di aumentare la probabilità di bloccare l’escalation al primo segnale premonitore, quando la situazione non è ancora fuori controllo.

Auto-proteggersi durante una aggressione
Quando invece la situazione finisce fuori controllo, la donna è completamente nelle mani del proprio maltrattante. L’aggressione cesserà sempre e solo quando lui lo decide ed indipendentemente dal comportamento di lei. Anche in questo caso, tuttavia, chi si rivolge al Centro anti-violenza può essere addestrata a fare le cose giuste nel panico, auto-proteggersi e proteggere i figli nel limite del possibile e mettere in atto un piano di fuga già esplorato e rappresentato più volte attraverso tecniche di reharsal o simulazioni. Avere una borsa già pronta, i documenti importanti, del denaro messo da parte, numeri di telefono di riferimenti importanti nell’emergenza memorizzati nel cellulare, i figli addestrati a chiamare la polizia piuttosto che cercare di mettersi in mezzo per proteggere la propria madre, chiamare le Forze dell’ordine e fare una sintesi della situazione in modo efficace, sono accorgimenti che possono modificare anche di molto l’esito di una aggressione.

Auto-proteggersi nel post-emergenza
Vi è infine la situazione delle donne che arrivano a prendere una decisione di andarsene e lasciare il partner violento, ad esempio attraverso un passaggio in casa rifugio, ma non necessariamente. Le professioniste che offrono il loro sostegno in questa fase non devono stupirsi se osservano un graduale calo dello stato d’allarme e una successiva sdrammatizzazione delle violenze avvenute. La tentazione a normalizzare l’esperienza di abuso, come già evidenziato, rappresenta più la regola che l’eccezione e saremmo tratte in inganno se pensassimo alla donna come una bugiarda manipolatrice oppure come una sciocca sprovveduta: sta solo mettendo in atto le strategie di difesa che le hanno permesso di sopravvivere nel contesto violento, ha bisogno di un tempo per recuperare fiducia nelle proprie percezioni ed un contatto con la realtà che la violenza necessariamente capovolge.

Le donne possono essere aiutate a discriminare i segnali fisiologici della paura ed educate a non ignorarli, a riconoscere le forme della violenza (compresa la violenza psicologica, sessuale, economica) e le strategie del controllo, a centrarsi su di sé e i propri bisogni, a conoscere i propri diritti affermativi, a ripristinare una visione assertiva di se stessa, come persona che ha il diritto di vivere in sicurezza, libera dalla paura, all’interno di relazioni basate sul rispetto.

La sicurezza in una psicoterapia

La questione della sicurezza non è un aspetto delicato da affrontare solo in un centro anti-violenza o in una casa rifugio. Anche gli psicologi e le psicologhe che svolgono la libera professione oppure che lavorano nei servizi pubblici, a volte si trovano ad averci a che fare. Può accadere ad esempio ad uno psicoterapeuta a cui una donna si rivolge per un disturbo d’ansia, oppure un terapeuta familiare a cui due coniugi chiedono una terapia di coppia, oppure in un Consultorio a cui una donna si rivolge per una interruzione di gravidanza, ecc. – e dall’assessment emerge una problematica di violenza.

Nel trattare casi di violenza domestica, storicamente, si sono fronteggiate due posizioni avverse l’una all’altra: da un lato i fautori delle terapie familiari (principalmente sistemiche, ma non solo), dall’altro l’approccio psicoterapeutico di stampo femminista.

La prima inquadra il problema in termini di schema comunicativo disfunzionale e di escalation alla quale contribuiscono entrambi i partner, attraverso una crescente provocazione reciproca. La terapia proposta è solitamente di coppia.

L’approccio femminista, invece, tende ad attribuire l’intera responsabilità della violenza al suo autore e considera un percorso di coppia controproducente o addirittura pericoloso. Il classico paradigma “di genere” tratta la violenza nelle relazioni intime separando i partner e assegnando la donna vittima delle violenze ad un programma di sostegno ed elaborazione del trauma, mentre l’uomo violento ad un programma spesso di tipo psicoeducativo basato su strategie di gestione della rabbia e assunzione di responsabilità per la violenza.

Le ricerche più recenti sembrano colmare questa apparentemente insanabile divergenza, cercando di distinguere pattern diversi di violenza. In particolare possono essere distinte tre diverse modalità:

1. Controllo coercitivo – coppia caratterizzata da violenza unidirezionale, controllo di un partner sull’altro, intimidazione, paura della donna che di fatto non ha voce, è soggiogata.

2. Violenza situazionale – è spesso reciproca e determinata da una povertà di entrambi i partner rispetto ad abilità di auto-controllo e di regolazione della rabbia, e difficilmente sfocia in danni fisici seri.
3. Violenza e controllo reciproci – entrambi i partner sono controllanti e violenti l’uno verso l’altra.

L’ultima fattispecie è piuttosto rara e la letteratura non offre spunti per il trattamento.

Un percorso di coppia può invece essere pensato per la violenza cosiddetta situazionale, in cui si suppone che la violenza sia l’esito di una provocazione reciproca, e una terapia di coppia può aiutare entrambi a comprendere quali sono i trigger dei propri comportamenti, assumersene la responsabilità e abbandonare le modalità comunicative aggressive. In questo caso però, vi devono essere dei pre-requisiti per procedere con la terapia: entrambi devono essere impegnati nella terapia, motivati al cambiamento e pronti ad assumersi la propria parte di responsabilità. Inoltre anche quando la violenza è biunivoca, l’uomo deve riconoscere la sua maggiore forza e capacità in termini di minaccia e danno potenziale verso la donna.

Nel caso del controllo coercitivo – laddove non vi sia semplicemente una difficoltà comunicativa o di negoziazione tra i due partner, ma una condizione di intimidazione, di dominio e di vero e proprio abuso di uno sull’altra – sono consigliati percorsi individuali per vittima e carnefice. L’idea di fondo di questa scelta sta nell’assunto che la coppia non vada seguita insieme per ragioni innanzi tutto di sicurezza (la vittima andrebbe incontro a ritorsioni anche gravi se provasse a parlare col terapeuta della gravità della violenza o a far valere le proprie istanze), ma anche perché fondamentalmente maltrattante e vittima hanno questioni diverse su cui lavorare.

L’assessment che lo psicoterapeuta fa è cruciale: la sua valutazione iniziale deve poter rilevare la gravità della violenza e i fattori di rischio e letalità per la vittima. Se ad esempio rileva che vi sono stati ricorsi al pronto soccorso o ricoveri ospedalieri a causa della violenza, questa è una informazione che dovrebbe completamente orientare le scelte terapeutiche andando verso una attenzione prioritaria per la sicurezza della paziente che subisce gli abusi.

Conclusioni

Le psicologhe e gli psicologi che accolgono la richiesta d’aiuto di una donna vittima di violenza possono fare molto, usando le proprie competenze anche nell’ambito della tutela della sicurezza. Il loro ruolo può essere cruciale sia nell’emergenza, sia nel post-emergenza, attraverso un empowerment mirato al rafforzamento della capacità di auto-tutela.

Una scelta di sicurezza è auspicabile anche in sede di psicoterapia, semplicemente non procedendo con una terapia di coppia quando si rileva una minaccia seria per l’incolumità fisica di una dei due o quando una dei due appare visibilmente intimorita ad esprimersi in presenza dell’altro.

BIBLIOGRAFIA

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