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I benefici della vita da single

I benefici della vita da single

È opinione diffusa che le persone single sono destinate ad essere infelici e depresse nella loro vita. Ma è davvero così?

La pressione al matrimonio e al “vissero per sempre felici e contenti” l’abbiamo sentita tutti/e. Molta parte della produzione letteraria e cinematografica sembra suggerire esattamente questa idea: trovare l’amore della vita e sposarlo è rappresentato come il massimo della realizzazione personale e garanzia di felicità.  Ci sono anche molti studi scientifici che collegano il matrimonio con la salute ed il benessere delle persone.

La psicologa sociale Bella DePaulo, dell’Università della California, grazie alle sue ricerche iniziate negli anni ’90, infrange questa credenza diffusa. Ci sono molte persone che sono single, alcuni in attesa della “persona giusta”, ma altri felici della loro libera scelta di essere e rimanere tali.

Per prima cosa, essere single non vuol dire essere soli. Anzi. Le ricerche sembrano indicare che, mentre gli sposati tendono a relazionarsi soprattutto all’interno del proprio nucleo, i single appaiono più “connessi” con la famiglia allargata, gli amici, i vicini e i colleghi di lavoro.

Sul piano della realizzazione personale, i single sono maggiormente tesi alla ricerca di un lavoro pienamente gratificante e significativo per loro, oltre ad essere più propensi alle attività di volontariato.

È inoltre più facile che un single percepisca un senso di crescita psicologica e si sviluppi in quanto individuo, e dovendo cavarsela più spesso da solo, è più autosufficiente, con una maggiore fiducia in se stesso, e meno propenso a sperimentare momenti di scoraggiamento.

E quindi, sostiene DePaulo, “molte delle cose terribili che si dice debbano accadere ai single, non trovano riscontro nella ricerca.”

È vero che molte persone traggono benefici dal matrimonio. Tuttavia le persone sono diverse, e ciò che porta benefici ad alcuni, non ne porta ad altri. Insomma, non c’è uno status migliore dell’altro. La verità è che non esiste una strada maestra per la felicità e la vita dei single può essere davvero molto piacevole, intensa e piena di significato.

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Superare il trauma

Superare il trauma

L’esperienza di un evento traumatico può sconvolgere la vita di una persona, lasciandole un senso di vulnerabilità e di paura. Ma recuperare serenità e fiducia è possibile.

Si può definire trauma un evento percepito come estremamente minaccioso a cui la persona ha risposto con un livello di paura intenso, senso di impotenza e orrore.

Tipici eventi traumatici possono essere: esperienze di guerra, aggressioni fisiche o sessuali, assistere alla morte di qualcuno in un incidente, oppure nel corso di terremoti, alluvioni, incendi, ecc. Spesso ha a che fare col “vedere la morte in faccia”.

È importante sottolineare che il trauma è un fatto molto personale. Siamo noi a dare significato e peso a quello che ci succede, facendo sì che quello che è traumatico per qualcuno potrebbe essere una esperienza semplicemente negativa per qualcun altro. Questa variabilità ha che fare con il sistema di credenze e di valori di ciascuno e con le precedenti esperienze di vita. Vi è una variabilità anche nella capacità di recupero: alcune persone possono impiegare alcune settimane o mesi dopo l’incidente prima di tornare a condurre una vita soddisfacente anche con il sostegno di familiari e amici. Per altri invece il recupero non è così semplice e talvolta si può arrivare al Disturbo post-traumatico da stress.

Il Disturbo post-traumatico da stress origina dalla risposta fisiologica dell’organismo allo stress estremo, ma con una sintomatologia che si protrae nel tempo, anche quando la minaccia è cessata. Questo avviene perché quanto sperimentato ha la capacità di modificare la percezione di se stessi e del mondo. L’esperienza ribalta sia la percezione di un mondo bello e giusto, sia l’idea di se stessi, di essere forti, capaci e adeguati. A questo punto la persona vede ovunque il pericolo e sta costantemente in allerta, in guardia, sulla difensiva.

Questo può portare a difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, irritabilità, irrequietezza. Possono comparire pensieri intrusivi (immagini e ricordi dell’evento traumatico), incubi, flashback (rivivere l’evento come se stesse accadendo qui e ora). Infine vi possono essere comportamenti di evitamento di tutto ciò che può ricordare l’evento traumatico, allo scopo di limitare l’esperienza di ansia; di conseguenza si limita pesantemente la vita, ci si isola, si limitano attività precedentemente considerate piacevoli e si può andare verso la depressione.

La psicoterapia in questi casi può sostenere la rielaborazione dell’esperienza traumatica, rafforzare la capacità di far fronte a situazioni che spaventano e trasferire strategie di gestione dello stress.

Guarire in questi casi non significa dimenticare quanto accaduto e nemmeno avere la garanzia che non si proveranno più emozioni negative al ricordo dell’evento traumatico. Ma questo stress può diventare meno frequente e più gestibile, al punto da perdere il potere di controllare la vita di una persona. Guarire non significa nemmeno tornare esattamente come si era prima. Esperienze forti possono cambiare le persone in molti modi, non necessariamente negativi. Si può diventare più forti, più comprensivi, più equilibrati e aperti.

Un trauma non stabilisce un destino

La dott.ssa Grilli ha una esperienza pluriennale nella terapia in questo ambito, in particolare rispetto al Disturbo post traumatico sperimentato dalle vittime di aggressioni fisiche e sessuali o dai sopravvissuti a eventi catastrofici.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, un supporto psicologico qualificato può essere determinante.

Link alle risorse dell’American Psychological Association.

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Il ciclo dell’ansia

Il ciclo dell’ansia

L’ansia è una reazione normale e sana, ma potrebbe diventare cronica attraverso il meccanismo definito “ciclo dell’ansia”.

L’ansia costituita da una serie di cambiamenti nel corpo e nel modo di pensare e comportarsi che ci permette di fronteggiare e rispondere rapidamente a minacce e pericoli per la nostra vita.

Facciamo un esempio.

Stai attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali. A un certo punto vedi che un’auto sta sopraggiungendo velocemente e non accenna a rallentare per permetterti di completare l’attraversamento. Allora inizi a correre per metterti in salvo sul marciapiede qualche metro più in là. Il cervello rileva il pericolo e in automatico il corpo si attiva:

  • Il battito cardiaco accelera e la pressione del sangue aumenta;
  • La capacità del sangue di coagularsi aumenta, in preparazione ad una possibile lesione;
  • La sudorazione aumenta, per aiutare a raffreddare il corpo;
  • Una quantità di sangue è dirottata sui muscoli, che si tendono, pronti all’azione;
  • La digestione rallenta;
  • Diminuisce la produzione di saliva, causando secchezza delle fauci;
  • Il ritmo del respiro accelera, le narici e i passaggi di aria si dilatano, per far affluire velocemente più ossigeno;
  • Il fegato rilascia zuccheri, per fornire energia;
  • Gli sfinteri si contraggono per chiudere intestino e vescica;
  • Le risposte immunitarie si indeboliscono, il che è utile a breve termine per permettere una risposta massiccia all’immediato pericolo.

Tutto questo accade per permetterti di raggiungere velocemente il marciapiede ed evitare di venire investito.

Questa reazione, definita di “attacco-fuga”, è la stessa che sperimentiamo quando siamo in ansia, spaventati, preoccupati, agitati. Nel corpo puoi osservare alcune delle seguenti sensazioni (in misura maggiore o minore a seconda dell’entità della minaccia percepita):

  • Tremori;
  • Irrequietezza;
  • Tensione muscolare;
  • Sudorazione;
  • Fiato corto;
  • Tachicardia;
  • Tuffo al cuore;
  • Mani fredde e sudate;
  • Respiro affannoso;
  • Secchezza delle fauci;
  • Vampate di calore o brividi;
  • Nausea;
  • “Farfalle” nello stomaco.

Ora, la risposta del nostro corpo è identica, sia che la minaccia vada affrontata con uno sforzo fisico, sia che dobbiamo rispondere verbalmente a una critica aggressiva di un collega, oppure che temiamo una figuraccia parlando davanti a un pubblico, oppure che il medico ci dà una cattiva notizia sulla nostra salute, casi cioè in cui la soluzione non è certo combattere o mettersi a correre. La biologia è veramente di poco diversa da quella che caratterizzava i nostri antenati alle prese con un animale feroce. E perciò facciamocene una ragione, è così che funzioniamo.

A un certo punto però, può accadere qualcosa di più, alle persone più propense a preoccuparsi o ad allarmarsi eccessivamente. Osservando la propria reazione d’ansia, ne sono disturbati e iniziano a preoccuparsi per l’ansia stessa. Alcuni esempi di pensieri di preoccupazione:

  • Ancora una volta sto dimostrando di essere debole;
  • Sono troppo emotivo, non so affrontare le situazioni;
  • Vedendomi così, le persone penseranno che sono incapace;
  • Il cuore batte troppo velocemente … mi starà venendo un infarto?
  • Sono arrossito, che vergogna!

Ciò causa, naturalmente, una ulteriore attivazione del sistema attacco-fuga, portando ad un circolo vizioso. Se non si riesce a interrompere questo circolo, il problema d’ansia diventa cronico.

Desideri un aiuto per identificare il tuo ciclo dell’ansia e i fattori di mantenimento che lo tengono in vita?

Approfondisci i vari disturbi d’ansia

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La fibromialgia

La fibromialgia

La fibromialgia è un disturbo caratterizzato da dolore diffuso nella maggior parte del corpo, i cui gli aspetti psicologici non possono essere ignorati. A lungo si è dibattuto, fin dal suo riconoscimento nel 1990, se non sia da classificare piuttosto come disturbo psicosomatico, data la rilevanza della sintomatologia d’ansia e/o depressiva che spesso l’accompagna. L’eziologia ignota è il principale elemento che determina questa difficoltà di classificazione.

Chi soffre di fibromialgia ha i muscoli in costante tensione, il che provoca non solo dolore, ma anche rigidità che limita i movimenti, spossatezza, affaticamento per minimi sforzi, sonno mai profondo, ripetuti risvegli, stanchezza al mattino, oppure sindromi funzionali somatiche come la colite spastica. La maggior parte dei pazienti lamenta un livello di disabilità considerevole ed una diminuita qualità della vita.

La tensione muscolare si riflette a livello dei tendini che diventano dolenti in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della fibromialgia e vengono definiti “tender points”. Il dolore in questi punti è solo parte della sintomatologia, che può implicare anche altri sintomi sia fisici che cognitivi: affaticabilità, sonno non ristoratore, insonnia, colite spastica, emicranie, crampi addominali, debolezza, nausea, dolori al petto, fischi alle orecchie, vertigini, attenzione costante al dolore, drammatizzazione.

Se i fattori causativi della fibromialgia rimangono un punto di domanda, i fattori di mantenimento sono stati maggiormente esplorati alla luce della teoria di Melzack e Wall (Gate-control theory) e del modello biopsicosociale del dolore. In quest’ottica, il dolore è un fenomeno complesso e dinamico influenzato non solo dall’input sensoriale, ma anche da fattori cognitivi, emotivi, comportamentali, culturali e sociali. Ad esempio vi sono evidenze rispetto al ruolo della catastrofizzazione nel modellare l’esperienza di dolore contribuendo all’aumento della sua intensità percepita. La catastrofizzazione comporta rimuginazione sul dolore, sentimenti di impotenza e un orientamento generalmente pessimistico rispetto all’esperienza dolorifica e alle sue conseguenze. In questo senso è un elemento che sembra giustificare la frequente comorbidità tra fibromialgia e sintomatologia depressiva.

Accanto alle terapie farmacologiche che mirano alla riduzione del dolore, vi sono le terapie non farmacologiche. La letteratura internazionale sull’argomento riporta che un approccio multidisciplinare è in genere più efficace rispetto alle terapie singole.

Tra gli approcci alla fibromialgia maggiormente supportati empiricamente vi è la terapia cognitivo-comportamentale, che agisce nella direzione di evidenziare e correggere convinzioni e aspettative maladattive che mantengono ed esacerbano i sintomi e a modificare l’atteggiamento verso il dolore, incrementando le abilità di self-management e l’apprendimento di strategie di fronteggiamento dei sintomi.

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La manipolazione affettiva

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente “lavorare con le mani”, “influenzare una persona, farle fare ciò che vuoi.” È di fatto una forma di violenza psicologica e quando avviene all’interno di una relazione sentimentale può avere effetti deleteri sul benessere psicologico, sull’autostima e sulla libertà.

L’obiettivo più o meno consapevole della manipolazione è avere potere sull’altra persona, farla sentire sbagliata usando però modi gentili. Crea dipendenza, rende vulnerabili, porta a mettere in atto comportamenti che non si vorrebbero. Ed è difficile da riconoscere proprio perché mascherata dietro modi che non solo palesemente aggressivi o violenti.

Per diventare più capaci di riconoscerla, vediamo alcune forme che concretamente può prendere la manipolazione. Faccio presente che gli esempi riportati di seguito vedono l’uomo come manipolatore e la donna come vittima di questa manipolazione per due motivi: primo, perché è il caso più frequente (in un sistema ancora patriarcale, sono gli uomini ad essere incoraggiati ad avere potere su una donna e sono le donne a venire educate ad essere sottomesse e disponibili); secondo, perché le presenti riflessioni scaturiscono dal mio lavoro con le donne vittime di violenza ed è a partire dalle loro storie che ho estrapolato gli esempi. Tuttavia, è del tutto evidente che i ruoli potrebbero essere invertiti in alcuni casi e interessare anche le coppie omosessuali.

Esempi di manipolazione affettiva

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti sta dicendo che non vai bene

Il messaggio positivo, di amore, ha decisamente più peso sul piano emotivo, e permette di far passare l’altro messaggio: che hai qualcosa di sbagliato.

“Sei bruttina però ti amo lo stesso.”
“Mi piaci tanto, anche se sei cicciottella.”
“Ho un debole per te, sciocchina”.

Ti dice che ti ama, ma di fatto ti fa capire che non ce la farai senza di lui oppure che nessun altro ti vorrà

Come sopra, lo zucchero indora la pillola amara: ti sta dicendo che sei rifiutabile, non amabile, indegna di affetto, incapace, inetta.

“Non ti amerà mai nessuno come ti amo io.”
“Non troverai mai nessuno come me.”
“Non ne combini una giusta … che faresti se non ci fossi io che mi preoccupo per te …”

Ti dice che ti ama, ma ti ricatta

Una potente manipolazione fa leva sull’attaccamento affettivo per ottenere qualcosa da te.

“Se mi ami quanto ti amo io, fai come dico.”
“Se tu continui a fare di testa tua, io sarò costretto a …”
“Dai, non uscire con la tua amica, stai con me. Scegli: o lei o me!”

Ti dice che ti ama, ma fa la vittima

Si tratta di un rovesciamento dei ruoli: porsi nella posizione di vittima sofferente, ma lo scopo è quello di ottenere controllo su di te, facendoti sentire in colpa.

“Io così non ce la faccio più, ti amo da morire, ma mi fai soffrire troppo!”
“Siete tutti contro di me, anche tu che dovresti amarmi non mi aiuti.”
“Se mi devi trattare così, è meglio che la faccio finita!”

Usa parole gentili, ma dice bugie, ti fa credere cose non vere, nega l’evidenza

Questo tipo di manipolazione mira a far vacillare la tua percezione della realtà, facendoti dubitare di te stessa. Più crescono i tuoi dubbi, più lui ottiene potere su di te.

“Ti sbagli, io non ho mai fatto quello che dici …”
“Come puoi lontanamente pensare che … non hai capito niente!”
“Hai frainteso, le cose non sono affatto andate così.”

Usa parole gentili, ma nega ogni responsabilità personale e alla fine la colpa è sempre tua

Il manipolatore è tipicamente una persona che non si assume responsabilità, non vede i propri errori e non li riconosce; cerca di convincerti che sei tu ad aver interamente provocato la situazione problematica di cui si sta discutendo.

“Se io faccio così, è perché tu …”
“Se non fosse per i tuoi problemi, potremmo essere più felici.”

Come capisco che sono vittima di manipolazione

Ascolto i miei sentimenti

Se mi sento spesso inadeguata, incapace, o in colpa; se sperimento frequentemente disagio, timori, dubbi su di me … c’è qualcosa che non va che merita di essere messo meglio a fuoco. In una relazione che funziona, infatti, sebbene possano esserci problemi, ci si valorizza a vicenda, si rispettano i sentimenti di entrambi, ci si conferma a vicenda, ci si rinforza.

Mi domando: lui mi porta a fare cose che non farei mai di mia volontà?

Voglio veramente fare quello che lui mi chiede? Sono sempre io che mi sacrifico? Ho del tempo libero per me, oppure è sempre tutto per lui? Come mi sento a fare scelte libere, sostenuta e valorizzata oppure in colpa? Rimettere a fuoco se stessi, il proprio punto di vista, i propri obiettivi è un potente antidoto contro la manipolazione.

Osservo come vanno a finire le discussioni

Riesco a dire le mie ragioni o no? Chi dei due fa un passo indietro: sempre io o anche lui a volte? Chi chiede scusa all’altro? Chi vince di solito? Se la valutazione è fortemente sbilanciata in suo favore ed è sempre lui ad avere la meglio per un motivo o per l’altro, il rapporto non è veramente alla pari. Forse sto cedendo un po’ troppo spesso?

Cosa posso fare?

  • Mi fido delle mie sensazioni, della mia intelligenza, della mia memoria. Sebbene a volte io possa sbagliare, non può essere che io mi sbagli sempre!
  • Mi prendo le mie responsabilità, ma non tutte le responsabilità. Nei problemi di coppia entrambi hanno un ruolo; se lui non è abbastanza maturo da prendersi le sue colpe, non ci sono le basi per venirne fuori.
  • Dico “no” se quello che mi viene chiesto non va bene per me. E non mi sento in colpa, perché è un mio diritto dire no. In una coppia va bene venirsi incontro, ma attenzione che non sia un processo unidirezionale!
  • Se ho dei dubbi, chiedo consiglio a persone di cui mi fido. Un punto di vista esterno può aiutarmi a riconquistare obiettività sulla situazione.
  • Valuto se continuare la relazione o no. È difficile che auto-sacrificarmi e mettermi in una posizione di subalternità mi possa rendere felice.

Se hai questo tipo di esperienza, non è escluso che stai vivendo all’interno di una relazione che può diventare maltrattante. Scopri come con un percorso di sostegno è possibile ottenere aiuto per fronteggiare la violenza e gli obiettivi che ci si può porre sul piano psicologico in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile avere un parere professionale in merito.

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Difendere i propri confini in quattro mosse

Difendere i propri confini in quattro mosse

I nostri confini rappresentano i limiti che poniamo a noi stessi e agli altri.

Non è sempre facile difendere il nostro confine, in particolare quando per il rapporto che ci lega, proviamo senso di colpa o timore di offendere l’altra persona. Potremmo sperimentare paura del rifiuto, oppure timore del confronto con l’altro, che potrebbe diventare conflitto. Finiamo così per accettare situazioni che non ci piacciono o che non ci fanno sentire a nostro agio.

  • Rispondi alle emergenze altrui come fossero le tue?
  • Dici dei “sì” che non vorresti veramente dire?
  • Condividi troppe informazioni e fatti personali, non riuscendo a gestire l’invadenza?
  • Oppure al contrario, rinunci a priori ad esprimere i tuoi bisogni ed essere ascoltato?

Può darsi allora che sia il caso di mettere a fuoco il tuo confine personale e iniziare a difenderlo. Stabilire un confine non è da maleducati. Può essere fatto in modo rispettoso e positivo. Il vantaggio per se stessi ha a che fare con la sicurezza e il benessere, la sensazione di integrità personale e una più solida consapevolezza del proprio valore.

Ma è anche il rapporto a trarne beneficio. Assecondando e accontentando sempre l’altro, pensiamo erroneamente di non creare problemi e quindi di rafforzare una amicizia. Tuttavia non ci fa stare bene il fatto di sistematicamente sacrificare i bisogni personali per soddisfare quelli altrui. Ci si sente in balia degli altri e ci porta a provare rabbia, finendo alla lunga per logorare un rapporto invece di salvaguardarlo. Esplicitare i propri bisogni e i propri limiti favorisce invece l’instaurarsi di un rapporto franco, autentico, alla pari e basato sul rispetto reciproco.

1. Ascolta come ti senti

Le emozioni negative sono sempre il campanello d’allarme che qualcosa non va. Rabbia, frustrazione, paura, abbattimento: se ci sono, vanno ascoltate per cercare di capire da cosa derivano. Quali sono i tuoi bisogni in quel momento? Perché non ti senti a tuo agio?

Alcuni esempi: la richiesta di un amico a cui hai risposto “sì” ti è giunta sgradita? Qualcuno ha parlato al posto tuo? Il tuo interlocutore non ti ascolta? L’intensità della tua emozione ti dice se puoi passarci sopra perché è oggettivamente tollerabile per te, oppure se è il caso di agire per stabilire il tuo confine.

2. Decidi quello che desideri per te

Una volta preso contatto con le tue esigenze, è importante stabilire qual è lo spazio all’interno del quale ti senti a tuo agio e quali sono le regole e le condizioni da porre agli altri quando si muovono in questo spazio: come vuoi essere trattato, come vuoi che ci si rivolga a te, se e come vuoi essere toccato, quali sono i valori e gli obiettivi personali a cui non vuoi rinunciare, ecc.

Entra nell’ottica che è un tuo diritto farlo.

3. Stabilisci un obiettivo comunicativo e agisci

Stabilisci il confine con una comunicazione chiara e coincisa, senza giustificazioni inutili ed esprimendo le tue emozioni. Fai una richiesta precisa, nel rispetto della tua volontà, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri.

Si tratta di dire “no” alla richiesta? Stoppare un atteggiamento invadente? Affermare il tuo punto di vista? Fallo in modo rispettoso, comprensivo, ma fermo.

4. Ricorda che non sei responsabile della risposta dell’altra persona

A patto di essere educati e rispettosi, non abbiamo la responsabilità della reazione dell’altro. Anche se la risposta non dovesse essere positiva, questo non è sufficiente ad annullare il tuo bisogno. Aggiusta il tiro magari, ma non indietreggiare.

E se anche accadesse che l’altro non mostra la volontà di considerare quello che gli stai dicendo e continua a violare il tuo confine, è comunque importante parlare; ha a che fare col rispetto che abbiamo per noi stessi. Se queste violazioni continuano nonostante le tue comunicazioni, considera che potresti avere a che fare con una persona violenta e prevaricatrice; valuta se non sia il caso di interrompere la relazione per proteggere la tua integrità.

Stabilire confini è un processo, attraverso il quale si diventa gradualmente più capaci. Non rinunciare se un tentativo fallisce. Apprendi dall’esperienza. Ricorda: non è mai troppo tardi per accorgersi che un confine merita di essere eretto. Ad esempio ci si può rendere conto ad un certo punto di aver condiviso troppe informazioni riservate a un nuovo collega di lavoro o che un’amica si sta comportando in modo un po’ squalificante nei tuoi confronti. Non è mai tardi per agire nella direzione di proteggere il proprio confine. 

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Come lo stress influenza la tua salute

Come lo stress influenza la tua salute

Questo articolo è una traduzione realizzata da Elena Grilli di una risorsa messa a disposizione da APA, American Psychological Association.

Stress: Tutti l’abbiamo provato. A volte lo stress può essere una forza positiva, che ci motiva a fare bene in una performance al pianoforte o in un colloquio di lavoro. Ma spesso – come quando siamo imbottigliati nel traffico – è una forza negativa. Se si sperimenta stress per un periodo di tempo prolungato, può divenire cronico, a meno che non si decida di correre ai ripari.

UNA REAZIONE FISIOLOGICA

Vi siete mai trovati con le mani sudate ad un primo appuntamento o col cuore in gola guardando un film dell’orrore? Se sì, allora siete in grado di sperimentare stress nella mente e nel corpo.

Questa risposta automatica si è sviluppata nei nostri antenati come modo per proteggersi dai predatori e altre minacce. Di fronte al pericolo, il corpo ingrana la marcia: viene inondato da ormoni che accelerano il battito cardiaco e aumentano la pressione sanguigna. Per prepararsi ad affrontare la situazione, il corpo si attiva.

Oggi non corriamo più il pericolo di essere divorati, ma sicuramente ci confrontiamo con innumerevoli sfide ogni giorno (come rispettare scadenze, pagare i conti e destreggiarsi coi figli) che fanno reagire il nostro corpo esattamente allo stesso modo. Come conseguenza, il nostro naturale sistema di allarme – la risposta “attacco o fuga” – può essere e rimanere attivato. E questo può avere serie conseguenze sulla nostra salute.

FOCOLAI DI TENSIONE

Anche stress minori e di breve durata possono avere un impatto. Potremmo avere il mal di stomaco prima di una presentazione, ad esempio. Stress più acuti, legati a un evento come un terremoto o un attacco terroristico, hanno naturalmente un impatto molto maggiore.

Diversi studi hanno evidenziato come questi improvvisi stress – in particolare se collegati con l’emozione della rabbia – possono innescare un attacco cardiaco, provocare aritimie e perfino condurre alla morte. Questo accade fondamentalmente a persone che hanno già un disturbo cardiaco, tuttavia alcune persone non sanno di avere un problema finché uno stress acuto non causa l’infarto o altri problemi.

STRESS ACUTO

Quando lo stress inizia ad interferire con la nostra vita quotidiana per un periodo prolungato diventa anche più pericoloso. Maggiore è la durata, peggiore è la ricaduta per la salute. Si può sperimentare, ad esempio, affaticamento, difficoltà di concentrazione oppure irritabilità immotivata. Lo stress cronico causa inoltre un costante logorio al nostro corpo.

Lo stress può peggiorare problemi di salute pre-esistenti. In uno studio, ad esempio, circa la metà dei soggetti ha ridotto la gravità dei mal di testa cronici di cui soffriva dopo aver appreso modalità per arrestare la tendenza a catastrofizzare e a farsi sistematicamente pensieri negativi sul dolore, tendenza che per l’appunto produce stress. Lo stress cronico può inoltre causare malattia, sia per i cambiamenti che si producono nel corpo, sia per l’incremento di comportamenti quali il fumo o l’alimentazione eccessiva o altre cattive abitudini che le persone utilizzano per fronteggiare lo stress.

Lo sforzo lavorativo – alte richieste insieme a bassa autonomia decisionale – è associato a un più elevato rischio di disturbi coronarici. Altre forme di stress cronico, come la depressione e un basso livello di sostegno sociale, sono inoltre implicate in un più alto rischio cardiovascolare. E una volta che si è malati, lo stress può rendere più difficoltosa la guarigione. Un’analisi di studi passati, ad esempio, suggerisce che i pazienti cardiaci affetti dalla cosiddetta personalità “Tipo D” – caratterizzata da stress cronico – deve far fronte ad una più alta probabilità di prognosi negativa.

COSA SI PUÒ FARE

Ridurre i livelli di stress può non solo farci sentire meglio qui e ora, ma protegge anche la nostra salute a lungo termine.

In uno studio, i ricercatori hanno esaminato l’associazione tra “affettività positiva” – sentimenti come felicità, gioia, contentezza ed entusiasmo – e sviluppo di malattie coronariche nell’arco di un decennio. Lo studio ha trovato che per ogni incremento di un punto nell’affettività positiva su una scala da 1 a 5, la percentuale di malattie cardiache precipitava del 22%.

Lo studio non dimostra che aumentare l’affettività positiva diminuisce il rischio cardiovascolare, ma i ricercatori raccomandano comunque di ritagliarsi un po’ di tempo tutti i giorni per attività piacevoli.

Di seguito altre strategie per ridurre lo stress.

Identificare la causa dello stress. Monitora lo stato d’animo lungo tutta la giornata. Se ti senti stressato, scrivi la causa, i pensieri e l’emozione corrispondente. Una volta che sai cosa ti disturba, pensa a un modo per gestirlo. Questo potrebbe significare avere aspettative più ragionevoli su di sé e sugli altri, oppure chiedere aiuto per le responsabilità domestiche, attività di lavoro o altri compiti. Fai un elenco dei tuoi impegni, valuta le priorità e poi elimina ogni compito che non sia assolutamente essenziale.

Costruisci relazioni solide. Le relazioni possono essere una fonte di stress. La ricerca ha mostrato che le reazioni negative e ostili del proprio coniuge determinano cambiamenti immediati negli ormoni sensibili allo stress. D’altro canto le relazioni posso servire da valvola di sfogo. Rivolgiti a familiari o amici intimi e comunica loro che stai passando un periodo duro. Le persone possono offrire aiuto pratico e supporto, idee utili o anche semplicemente una prospettiva diversa da cui partire per contrastare le cause dello stress, qualunque esse siano.

Quando sei arrabbiato, allontanati. Prima di reagire, prendi tempo per riordinare le idee contando fino a 10. Poi riconsidera la questione.

Passeggiare o altre attività fisiche posso aiutare a liberarsi di emozioni negative. L’esercizio fisico aumenta la produzione di endorfine, il propulsore naturale del tuo umore. Impegnati in una passeggiata al giorno o altre forme di esercizio – un piccolo passo che può fare una grande differenza nel ridurre i livelli di stress.

Riposa la tua mente. Secondo l’indagine del 2012 dell’A.P.A., lo stress causa insonnia al 40% degli adulti. Per garantire un sonno di sette-otto ore come raccomandato, riduci la caffeina, elimina le distrazioni come la televisione o il computer dalla camera da letto e vai a dormire sempre alla stessa ora. La ricerca indica che attività come lo yoga o esercizi di rilassamento muscolare non solo aiutano a ridurre lo stress, ma aiutano anche il funzionamento del sistema immunitario.

Fatti aiutare. Se continui a sentirti sopraffatto, chiedi una consulenza psicologica al fine di apprendere modalità efficaci di gestione dello stress. Possono essere identificate e cambiate le situazioni o i comportamenti che contribuiscono al tuo stress cronico.

Fonte: How stress affects your health, a cura di APA, American Psychological Association Help Center

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un consulto.
Vai alla guida “Fare ciò che conta nei momenti di stress” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

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Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male.

Scegliere una psicoterapia. Cinque consigli per non cascare male

Quando per affrontare un problema personale si decide di affidarsi a una psicoterapia, ci si trova di fronte a una difficile scelta. Di professionisti ce ne sono davvero tanti e con formazioni e approcci molto diversi tra loro. Non è escluso che non orientandosi bene in questo mare magnum, si possa perfino finire nello studio di un ciarlatano che non avrebbe nemmeno titolo per esercitare la psicoterapia, ma si sa ben pubblicizzare e vendere.
Allora ecco cinque consigli per affidarsi a uno/a psicoterapeuta senza cascare male.

Primo consiglio

Prima di affidarsi ad un professionista, la prima regola è accertarsi che sia effettivamente iscritto/a all’Albo degli psicologi. Se l’oggetto della consulenza riguarda la cura di disturbi psicopatologici, non è nemmeno sufficiente essere psicologi, è necessario avere acquisito il titolo di psicoterapeuta, che implica 4 anni di scuola di specializzazione in più. Questa informazione può essere acquisita tramite l’Ordine degli psicologi o dei medici (possono accedere alle scuole di psicoterapia sia i laureati in psicologia che i laureati in medicina), ad esempio inviando una mail alla loro segreteria.

Diffidare di chi si propone come molto empatico o capace a partire da una predisposizione all’ascolto e all’aiuto degli altri. La verità è che solo una adeguata e lunga formazione in psicoterapia è la base di una pratica qualificata.

Le terapie che funzionano non scaturiscono da capacità individuali innate, ma piuttosto da una solida preparazione su tecniche che hanno un fondamento scientifico, che sono riconosciute dalla comunità scientifica e che sono consolidate in decenni di pratica.

Secondo consiglio

Un bravo e onesto professionista è in grado di specificare per quali disturbi o problematiche il suo approccio è più indicato, e, per le problematiche di cui non si occupa, è in grado di orientare a forme di trattamento alternativo, più adatte ed efficaci in quel caso, informando il paziente dell’esistenza di queste opportunità.

Diffidare di terapie in cui si dà a intendere che i problemi e i disturbi psicologici scaturiscono tutti da una sola causa generale.

Ad esempio, ed è il caso più frequente, l’idea che se stiamo male è perché abbiamo subito nell’infanzia un qualche tipo di trauma (spesso di tipo sessuale), anche se magari nemmeno ce lo ricordiamo.

Parallelamente, è necessario diffidare di terapie che propongono la stessa identica tecnica terapeutica per tutti i casi.

Il paziente può avere in questi casi la sensazione che una diagnosi sia stata fatta un po’ frettolosamente, senza avere la possibilità di dire tutto quello che secondo lui/lei è rilevante, oppure la sensazione che il professionista cerchi di imporre le proprie convinzioni senza cogliere le differenze e le specificità di cui la persona è portatrice.

Terzo consiglio

Le terapie efficaci sono solitamente basate su precise tecniche volte ad acquisire abilità personali di fronteggiamento attivo di determinate situazioni e si focalizzano sulle problematiche attuali per rendere il paziente più efficace nel gestirle.

Diffidare delle terapie che si basano unicamente sul recupero dei ricordi, nell’idea che la guarigione avverrà per il solo fatto di aver ricordato.

Se anche è utile ricostruire fasi precedenti della vita al fine di comprendere i fattori predisponenti, causativi o precipitanti di un disturbo o di una difficoltà, la semplice rievocazione di fatti che risalgono all’infanzia non li farà svanire come per incanto. Questa evidenza è ormai consolidata all’interno della comunità scientifica.

Quarto consiglio

Il buon esito di una terapia dipende spesso da una buona alleanza terapeutica, cioè la sensazione che paziente e terapeuta hanno di lavorare nella stessa direzione e per gli stessi obiettivi, stabiliti dal paziente. Un bravo professionista è contento che il proprio paziente non sia passivo, ma attivo nel definire i propri obiettivi di crescita personale, che chieda informazioni precise sulle metodiche utilizzate e che espliciti i propri dubbi, perché questo coinvolgimento attivo del paziente solitamente è associato al successo della terapia.

Diffidare del professionista che impone i propri obiettivi, che si mostra seccato di fronte alle domande, infastidito dai dubbi, reticente nell’esplicitare le premesse teoriche da cui parte o le tecniche che sta utilizzando.

Quinto consiglio

Un paziente deve poter valutare in autonomia come si sente e i progressi che sta ottenendo. Soprattutto deve sentire di essere rispettato nelle proprie emozioni, convinzioni, valori e scopi.
Se si ha la sensazione di non venire ascoltati o di essere controllati, se si pensa che importanti decisioni della propria vita vengono prese dal terapeuta piuttosto che essere prese in prima persona, se la seduta di terapia assomiglia più a una chiacchierata tra amici e il paziente ha la sensazione che si sta procedendo a tentoni, questi sono campanelli d’allarme da non ignorare e che vanno prima possibile discussi.

Ascoltare se stessi e dire con franchezza al proprio terapeuta come ci si sente. In una buona terapia c’è sempre spazio per ascoltare e accogliere questi aspetti.

Buona crescita personale!

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Il perfezionismo

Il perfezionismo

Ma il perfezionismo, è sano e desiderabile perché assicura risultati elevati e grande affidabilità, oppure è autodistruttivo e conduce a delusioni, insoddisfazione e depressione?
Il perfezionista dà grande valore all’eccellenza e desidera fortemente raggiungere obiettivi importanti. Il suo amore per la perfezione, se combinato con la perseveranza e se sostenuto da abilità, può portare a grandi risultati.
Allora perché il perfezionismo è sovente un correlato di psicopatologie serie (depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari …)?

L’aspetto patologico risiede nel porsi standard personali eccessivamente elevati e irrealistici e, quello che è peggio, nel collegare in modo rigido il raggiungimento di tali standard alla valutazione di sé (autostima).

In altre parole, il perfezionista ritiene che il proprio valore personale risieda nel raggiungimento di questi standard particolarmente esigenti e che sarà accettato ed amato solo a condizione di fare perfettamente. Per questo motivo è iperattento agli errori, ognuno dei quali rappresenta ai suoi occhi un fallimento personale imperdonabile. Anche verso gli altri, tende ad essere giudice esigente, duro e punitivo, tanto quanto lo è verso se stesso.
Le sue azioni sono guidate dalla paura di sbagliare e di essere disapprovato, per cui paradossalmente rimanda continuamente o evita di confrontarsi con i compiti nei quali teme di fare fiasco, oppure controlla e ricontrolla in modo ossessivo quello che ha fatto allungando in modo esagerato i tempi di esecuzione di un compito, finendo per essere del tutto improduttivo.
Per lui è sempre tutto o niente, non riconosce il pregio e il merito di risultati intermedi o comunque sufficientemente buoni. Il che lo prostra facilmente in un vissuto di tristezza, vergogna, stress, indecisione, fallimento, dubbio, senso di colpa.

La base della bassa autostima del perfezionista sta appunto nell’irragionevolezza delle pretese verso se stesso e nell’idea che se non farà di più e meglio, perderà la stima delle persone.

Naturalmente esistono persone con una sana tendenza ad eccellere, che si distinguono dai perfezionisti patologici per le seguenti caratteristiche:
– Non collegano il proprio valore personale e la propria autostima al raggiungimento degli standard;
– Ritengono che il buon risultato porti soddisfazione personale, ma non ne hanno bisogno per ottenere l’amore e il rispetto degli altri;
– Sono attivi, creativi, entusiasti, sono contenti e si auto-congratulano anche per risultati intermedi;
– Vedono l’errore come un’occasione per apprendere e fare meglio la prossima volta, più che l’evidenza del proprio fallimento.
Esistono terapie efficaci per il trattamento del perfezionismo patologico, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, che, agendo su quell’insieme di credenze disfunzionali che lo tengono in vita, aiuta le persone a ritrovare il piacere di fare bene.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile approfondire in che modo il perfezionismo mina il proprio benessere psicologico.

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Depressione

Depressione

La depressione è un problema molto comune: la maggior parte delle persone si sente giù di umore, in particolare quando alle prese con fasi critiche della propria vita o con eventi stressanti.

Si stima che in Italia la depressione colpisca nell’arco della vita, circa l’11% della popolazione.

Un divorzio, una perdita di lavoro, problemi economici o un lutto sono esempi di eventi precipitanti la depressione. Ora però sappiamo che il nostro modo di pensare gioca un ruolo cruciale sul nostro umore.

Di seguito i principali segni e sintomi che si possono verificare in una condizione di depressione. Quando si è depressi, vi sono cambiamenti nel modo di pensare, sentirsi, comportarsi e nelle reazioni fisiologiche:

  • Tristezza, sensi di colpa, senso di disperazione;
  • Perdita di interesse o di entusiasmo;
  • Pianto o viceversa, totale incapacità a piangere;
  • Sentirsi soli anche quando si è in compagnia;
  • Irritabilità, rabbia, a partire da piccoli pretesti;
  • Stanchezza, spossatezza;
  • Agitazione, disturbi del sonno;
  • Cambiamenti rilevanti nel peso, nell’appetito e nel comportamento alimentare;
  • Perdita di autostima;
  • Previsioni future pessimistiche e negative;
  • Pensiero che tutto sia senza speranza;
  • Odio verso se stessi;
  • Difficoltà di memoria e di concentrazione;
  • Difficoltà a prendere decisioni;
  • Scoraggiamento, difficoltà ad iniziare o portare avanti attività.

Se si sperimentano alcuni di questi sintomi, la condizione può essere temporanea o sfociare in un disturbo cronico.

La terapia cognitivo-comportamentale è efficace nel trattamento della depressione e può fornire una valida alternativa al trattamento farmacologico, anche nelle forme più gravi del disturbo.

Se ci si ritrova nelle problematiche illustrate in questo articolo, è possibile richiedere un supporto psicologico finalizzato a un migliore tono dell’umore.

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