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Tag: cognitivo-comportamentale

Non ce la faccio… rimando!

Non ce la faccio… rimando!

Una delle difficoltà che più ci impedisce di raggiungere i nostri obiettivi è la procrastinazione, la sistematica e fatale decisione di rimandare un’attività.

La maggior parte delle volte – ammettiamolo – noi non siamo del tutto persi e senza punti di riferimento. Sapremmo esattamente cosa fare e come. Tuttavia diciamo a noi stessi:

  • “Non ora”
  • “Adesso non ce la faccio”
  • “Ho ancora tanto tempo per…”
  • “Non sono pronto/a”

Naturalmente non è patologica ogni scelta di rimandare qualcosa. Tutti lo facciamo. Ma se la procrastinazione è cronica, mina importanti obiettivi di crescita personale o progetti. E diventa un problema.

Dopo la scelta di rimandare, il nostro cervello continua a lavorare e a valutare la nostra stessa scelta. Iniziamo a dire a noi stessi:

  • “Pigro!”
  • “Sei inutile”
  • “Sei un menefreghista”
  • “Non combinerai mai nulla”
  • “Sei un incapace”
  • “Sei un fallito”

Quando dobbiamo insultare noi stessi di solito non andiamo troppo per il sottile. L’idea (del tutto infondata) è che tanto più ci andremo pesante, tanto più ci riscuoteremo dall’immobilismo. Purtroppo non è così che troveremo la motivazione. Anzi, è questo il modo migliore per avere un umore ancora più basso e un drammatico calo di energie e voglia di fare.

Il circolo vizioso

Siamo di fatto in un  circolo vizioso. Se un’attività è sgradevole, noiosa o difficile, tanto più la rimandiamo, tanto più diventerà difficile pensare di applicarsi. Si tratta probabilmente del meccanismo che più di ogni altro è responsabile dei nostri fallimenti. E ci predispone alla depressione che ci attanaglia in particolari momenti della nostra vita.

Il procrastinatore seriale di solito si trova a dover fronteggiare alti livelli di stress che possono far sentire paralizzati, bloccati. Tanto più applica la sua strategia di evitamento, tanto più si sentirà alleggerito nell’immediato. Il carico di stress aumenterà però a medio e lungo termine. Il carico di lavoro si accumula, la scadenza si avvicina, la paura della disfatta cresce, i pensieri di incapacità personale si fanno più insistenti.

Dietro la tendenza a procrastinare ci può essere la paura di fallire, ed è paradossale come proprio così aumentiamo la probabilità di fallire. E’ come una ferita autoinflitta, un negare a se stessi la gratificazione di un obiettivo raggiunto, un togliere senso alla nostra esistenza.

Come uscirne?

Motore del benessere è rappresentato invece dall’emozione positiva che scaturisce dal riuscire in qualcosa che ci siamo riproposti, il poter dire a se stessi “Ce l’ho fatta”. Questo ci predispone al meglio per il successivo obiettivo da raggiungere. Ogni successo è come un premio per il nostro cervello, e quindi mette in circolo energia positiva.

Per uscire dal circolo vizioso a volte non è sufficiente semplicemente fare quello che si deve fare. Se fosse facile non esisterebbe il problema. Vi sono però metodi collaudati di autoregolazione emotiva che possono facilitare quel movimento in avanti iniziale che innesca il circuito virtuoso di azione e gratificazione.

Come regolare quella tensione emotiva responsabile dell’evitamento? Vi sono delle tecniche, che in un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale possono essere padroneggiate, per ridiventare padroni del proprio destino.

Contatta la dott.ssa Elena Grilli per iniziare ad agire in questa direzione… senza rimandare!

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Complotto!

Complotto!

Le teorie del complotto sono sempre esistite, ma in tempi di crisi tendono a propagarsi con maggiore forza, a volte facendo danni enormi.

Non hanno mai smesso di circolare e con i social hanno avuto un’impennata in termini di diffusione, tutte quelle teorie basate sull’idea di un potente o un gruppo di potenti che stanno mettendo in atto un piano per controllare o sterminare la popolazione. In alcuni casi sono innocue, nel senso che crederci non porta grossi danni, come fantasticare sui piani segreti dietro l’assassinio di Kennedy o il falso allunaggio. Le teorie della cospirazione che si stanno diffondendo in questo periodo di pandemia, invece, portano a comportamenti imprudenti e irrispettosi delle regole di limitazione del contagio, e questo fa salire il numero di malati e morti in una misura che non è nemmeno possibile stimare.

Caratteristiche comuni di queste teorie sono:

  1. una narrazione semplice e lineare, con qualcuno da cui difendersi;

  2. la diffidenza verso le fonti ufficiali.

La pandemia Covid-19 è terreno particolarmente fertile per la diffusione di questo pensiero, perché la pandemia, con tutte le conseguenze che abbiamo toccato con mano negli ultimi mesi, genera paura e un generale senso di impotenza con cui non è sempre facile fare i conti. Noi esseri umani abbiamo un fondamentale bisogno di controllo sulla nostra vita e la pandemia ce lo ha tolto. La sensazione di aver perso delle libertà fondamentali è reale. Anche la confusione e la mancanza di informazioni coerenti e complete è reale. Questo ci dà la sensazione che ci manchi la terra sotto i piedi, che non abbiamo più la vita come la conoscevamo, che davanti a noi abbiamo una totale e oscura incertezza. La paura che ne scaturisce deve essere gestita.

Il complottista in un certo qual modo gestisce la propria ansia, attraverso un metodo di fronteggiamento dell’ignoto che funziona per ripristinare un senso di controllo e di fiducia. Pensare che la nostra vita e quella dei nostri cari sia a rischio a causa di un piccolo evento insignificante che ha coinvolto un pipistrello in Cina, destabilizza e terrorizza. Pensare invece che c’è un preciso schema portato avanti dai poteri forti, rasserena, perché permette di pensare che c’è una soluzione semplice: basta sabotare il piano malefico anche attraverso una serie di post nei social che aprano gli occhi agli ingenui, e tutto tornerà sotto il nostro controllo. Contro le forze della natura non possiamo nulla, ma contro Soros e Bill Gates possiamo molto! Ecco che le teorie del complotto diventano improvvisamente più attraenti della verità.

Peccato che questa modalità sia del tutto disfunzionale e dannosa per sé e per l’intera collettività. Il mettere in circolazione l’idea che i vaccini causino l’autismo o che siano utilizzati per impiantare microchip è un vero e proprio attacco alla salute pubblica. Non solo: genera ancora più confusione e incertezza di quella da cui si cercava di fuggire. Chi alimenta questo paradossale circolo vizioso ha, di base, una bassa autostima e un basso senso di auto-efficacia. L’emozione di paura e impotenza che sperimenta è comprensibile. Il modo di gestirle no.

Mai come in una emergenza come quella attuale è necessario rinunciare alle spiegazioni troppo semplici provenienti da fonti incerte e attenersi ai fatti, anche se ci mettono nel panico. Affidarsi alla scienza e alle autorità sanitarie è l’unico modo per normalizzare la nostra vita e tornare a sperimentare il senso di controllo perduto. Inoltre, sul piano psicologico, tutto quello che stiamo passando è un’importante opportunità per osservare e sfidare le nostre paure, aumentare la nostra capacità di fronteggiamento e la nostra resilienza. Come ogni crisi, ci apre alla possibilità di una crescita.

Sperimentare momenti di sconforto e ansia è del tutto normale in queste circostanze. Possono essere esplorati modi più funzionali di farvi fronte, senza doversi auto-ingannare sulla realtà che ci circonda.

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Il lutto. La vita dopo una perdita

Il lutto. La vita dopo una perdita

Quello della perdita è un tema che prima o poi dobbiamo porci. Andare avanti con la propria vita implica attraversare una serie di stati d’animo del tutto fisiologici.

La letteratura psicologica mette in luce una serie di fasi dell’elaborazione del lutto (Elisabeth Kübler Ross). Vi è una soggettività per cui ognuno di noi potrebbe sperimentare alcune fasi e non altre, oppure viverle con un diverso ordine. Potrebbe aiutarci molto, tuttavia, capire come in un dato momento potremmo sentirci e perché.

1. NEGAZIONE: “Non è possibile che sia accaduto”

È una reazione normale ed è spesso la prima. La negazione è un meccanismo di difesa che smorza l’emozione prorompente immediata, permettendoci di gestire la prima ondata di dolore che non siamo ancora pronti ad affrontare. La negazione non ha a che fare con una carenza di comprensione, al contrario significa che ci sentiamo paralizzati di fronte a una realtà inammissibile che travalica la nostra capacità di far fronte.

Avendo una funzione protettiva, la negazione va accettata come funzionale, soprattutto se la perdita è recente. Possiamo essere onesti verso i nostri sentimenti, piangere liberamente, anche di fronte ad altri. La distrazione (ad es. impegnarsi in molte attività) può alleviare l’intensità del dolore temporaneamente, ma non aiuta a procedere nell’elaborazione emotiva della perdita. Naturalmente non c’è la cosa giusta o sbagliata: ci confronteremo con tutto ciò che ci ricorda la persona a piccoli passi e quando ci sentiremo pronti.

2. RABBIA: “Non è giusto che sia accaduto!”

Un’altra reazione molto normale è la ricerca dei responsabili della perdita, su cui scagliare la propria rabbia. Potremmo prendercela con i colpevoli (più o meno realmente responsabili della morte), verso il mondo ingiusto, verso noi stessi per non aver impedito l’evento o per non esserci stati negli ultimi momenti della sua vita, verso i soccorritori che non hanno fatto abbastanza. Potremmo rivolgere la nostra rabbia anche alla persona deceduta, per averci abbandonato. Le nostre accuse potrebbero talvolta essere razionalmente poco logiche, tuttavia anche questa è una fase necessaria, perché stiamo iniziando a riconoscere la realtà e non siamo ancora pronti a farci attraversare dal dolore.

Anche la rabbia ci protegge e quindi è bene viverla fino in fondo senza vergognarcene, esprimendola o urlandola. Possiamo farlo mentre siamo da soli, oppure con una persona capace di comprendere questo sentimento e di ascoltarci senza giudizi.

3. NEGOZIAZIONE: “E se invece le cose fossero andate diversamente?”

A mano a mano che sempre di più si prende atto della definitività della perdita, il dolore avanza e per alleviarlo potrebbero essere d’aiuto delle temporanee vie di fuga, per costruirci un’idea di speranza e darci il tempo di riadattarci alla realtà della situazione. Alla ricerca di risposte, potremmo impegnarci in un rimuginio volto ad analizzare, capire, spiegare l’accaduto. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se qualcosa fosse andato un po’ diversamente o cosa potrebbe accadere in futuro. Esplorare le possibilità ci fa avvertire di meno il senso di impotenza.

Anche se ci dà un temporaneo sollievo, potremmo finire per impiegare molto tempo a rimuginare su pensieri di tipo “E se…” Le speranze che ci costruiamo in questa fase saranno con ogni probabilità deluse. Per questo è importante riuscire a parlarne a familiari e amici per avere supporto.

4. DEPRESSIONE: “Mi concedo di stare male”

La depressione è una fisiologica reazione al lutto e in questi casi non parleremmo di disturbo mentale. Ci si sente tristi, demotivati, spossati, privi di energie o senza emozioni. Potrebbe comparire un disturbo del sonno o un calo dell’appetito. Per superare la perdita è necessario esplorarla in tutta la sua profondità. Non spaventiamoci di questa sofferenza. È temporanea, anche se potremmo essere tentati di pensare che sarà così per sempre.

Non diamo troppo ascolto a chi pretenderebbe di dirci come ci dovremmo sentire (“fatti coraggio”, “sii forte”, “non piangere” “tirati su, altrimenti ti ammali”). Confrontiamoci col nostro dolore, guardiamolo negli occhi, invece di oscurarlo, magari con comportamenti dannosi (alcool, droghe, ecc.). In questa fase aiuta parlare con persone capaci di ascolto empatico, esprimere le proprie emozioni in modi creativi (scrivere una lettera alla persona cara, creare un album di foto, ecc.) o attraverso iniziative anche collettive che ricordano e onorano la persona defunta (ad es. una commemorazione).

4. ACCETTAZIONE: “Posso andare avanti con la mia vita”

In questa fase abbiamo preso atto che nulla cambierà la realtà. Non necessariamente staremo bene e la persona ci mancherà comunque. L’accettazione è il risultato di un processo di elaborazione, che tuttavia non dobbiamo aver fretta di raggiungere.
A partire da qui, riusciremo ad adattarci alla nuova realtà delle cose e ricominciare a investire nella nuova vita senza la persona cara.

L’accettazione non è un punto di arrivo, ma un processo che continua. Concediamoci di vivere e trarre piacere dalla vita senza sensi di colpa. Ci saranno momenti in cui pensando alla grave perdita saremo tristi. Possiamo però sempre più costruirci una vita ricca di gratificazioni. Riusciremo a farlo nella misura in cui ci concederemo di essere felici senza che questo sia percepito come una mancanza di rispetto verso la persona che non c’è più.

Il tempo di permanenza in una specifica fase è variabile e soggettivo. Dipende soprattutto dall’efficacia delle azioni che mettiamo in atto per gestirle, che possono essere più o meno funzionali. I sentimenti che accompagnano la perdita, in altre parole, non sono qualcosa che subiamo supinamente, ma qualcosa su cui il nostro comportamento agisce.

Un supporto psicologico nelle fasi più delicate può essere di aiuto proprio per questo. Se pensi di averne bisogno, puoi chiedere una consulenza alla Dott.ssa Elena Grilli.

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L’emergenza Covid-19 mi ha indebolito o rinforzato?

L’emergenza Covid-19 mi ha indebolito o rinforzato?

Ogni esperienza che mette alla prova le nostre difese senza abbatterle aumenta la nostra resistenza psicologica e le nostre abilità di fronteggiamento.

Le persone hanno modalità diverse di risposta all’ansia per la propria salute e modalità diverse di gestire la paura. L’emergenza Coronavirus ci ha posto di fronte a questi aspetti in un modo potente, ponendoci in una dimensione di incertezza collettiva, come mai prima d’ora. Non sapere cosa ci riserva il futuro, con che tempistica potremo tornare alla “normalità” che conoscevamo, il fatto di non avere ancora cure efficaci nel caso di un contagio che è ancora possibile, ci pone in un prolungato stato di indeterminatezza e disorientamento che come esseri umani mal tolleriamo. Tutti infatti sentiamo il bisogno di uno stato interno di equilibrio e della sensazione di avere il controllo sulla nostra vita. L’esperienza di stress prolungato a cui siamo sottoposti ci dà invece la sensazione di un controllo che ci sfugge. A questo contribuiscono le restrizioni necessarie al contenimento della diffusione del virus, che inevitabilmente limitano la nostra libertà, ponendoci ancora di più nel senso di impotenza rispetto ad azioni anche banali a cui eravamo abituati e che ora sono off limits.

Non ci piace sentirci così, minacciati e vulnerabili, e vorremmo poter agire per ripristinare il controllo. Ma se questo non è possibile nell’immediato, significa che siamo destinati a vivere nell’ansia continua o nella depressione? Ovviamente no, perché sappiamo che se non siamo nella condizione di poter cambiare attivamente la situazione, possiamo però agire per cambiare come ci sentiamo rispetto alla situazione stessa. In altre parole, se anche ci sfugge il controllo su quello che ci accade intorno, possiamo sempre avere il controllo dei nostri pensieri e stati d’animo.

Un modo per contrapporsi con sempre maggiore resistenza allo stress è quello di avere nel proprio repertorio una esperienza precedente di stimolo stressante affrontato con successo.

La nozione biologica di immunizzazione funziona anche in ambito psicologico: se a un individuo è stata data l’opportunità di avere a che fare con una situazione stressante, egli sarà capace in futuro di cavarsela con successo, padroneggiando in senso psicologico una situazione simile o di intensità un po’ più grande. Ciò produce senso di fiducia in sé, speranza e una percezione di controllo.

A distanza di alcuni mesi dall’inizio del lockdown, abbiamo tutti certamente sperimentato emozioni diverse, che vanno dalla frustrazione alla rabbia, dalla preoccupazione alla paura, dalla rassegnazione alla serenità. Questi mesi sono stati un importante osservatorio e un’importante palestra, in cui abbiamo potuto monitorare come reagiamo di fronte all’impotenza e affinare le strategie che ci sono più familiari per farvi fronte, alcune più efficaci di altre per ripristinare il nostro equilibrio.

Fare un bilancio può essere utile e può fare la differenza tra uscire da questa emergenza indeboliti (col pensiero di essere facilmente sopraffatti dalle avversità) o rafforzati (al pensiero di avere nella propria “valigetta degli attrezzi” strumenti potenti di resistenza).

Ecco alcune domande, rispondendo alle quali è possibile mettersi a fuoco e comprendere qualcosa in più di sé:

  • Come mi sono sentito non avendo il totale controllo della mia vita?
  • Come ho reagito allo stress prolungato?
  • Quali elementi della situazione mi hanno preoccupato di più?
  • Quali sono state le mie emozioni più forti?
  • Ho sentito di reggere queste emozioni oppure a volte ho avuto la sensazione di non poterne più?
  • Ero costantemente preoccupato/a o riuscivo a distogliere l’attenzione dai pensieri? Come ci riuscivo?
  • Mi sono protetto/a dalle notizie che aumentavano le mie preoccupazioni? Come?
  • Cosa ho detto a me stesso/a per rassicurarmi?
  • Che cosa mi ha permesso di restare sereno/a in alcuni momenti?
  • Cosa mi ha dato fiducia?
  • Quali attività mi hanno fatto sentire rilassato/a?
  • Sono riuscito/a a mantenere una routine o a ricostruirmene una?
  • Quali attività mi è riuscito più difficile mantenere? Quali invece è stato più facile?
  • In quali circostanze ho dimostrato di avere capacità di adattamento?
  • In quali circostanze ho dimostrato di essere bravo/a a trovare soluzioni?
  • In quali occasioni ho dimostrato di avere sangue freddo?
  • Ci sono state persone che hanno funto da punto di riferimento e mi hanno aiutato? Come?
  • Ho scoperto se ci sono risorse della mia comunità di appartenenza, utili nei casi di emergenza? Quali e in che modo possono essere d’aiuto?
  • In sintesi, cos’ho imparato su me stesso/a grazie a questa pandemia?

ATTENZIONE: se le tue risposte sono tutte del tipo: non ho capacità, non ho risorse, non sono riuscito in niente… torna su, ripercorri le domande con maggiore onestà verso te stesso/a e guardando con obiettività tanto le criticità quanto le risorse che hai senza ombra di dubbio dimostrato di possedere.

Determinate abilità apprese sul campo possono essere generalizzate, cioè applicate a una varietà di altre situazioni. Ritagliarsi uno spazio di tempo per riflettere sulle proprie reazioni e le proprie risorse in tempi difficili ci permette di essere consapevoli del bagaglio di abilità e competenze di cui disponiamo e che ci saranno utili per affrontare futuri momenti di stress e di incertezza. Questo alimenta la nostra autostima, la sensazione di farcela per quanto sia dura e l’intraprendenza, in opposizione ai sentimenti di disperazione passiva.

Senti di aver bisogno di una mano per silenziare la vocina che continua a ripeterti che non ce la fai, non ce la farai mai e tutto andrà male?

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Gruppo libero di donne Sboccia-tè

Gruppo libero di donne Sboccia-té

Sboccia-tè è un gruppo di donne in passato vittime della violenza maschile, che vogliono rifiorire e aiutare altre a rifiorire.

Davanti a un tè, una tisana, un caffè e qualche pasticcino, in un ambiente sicuro e totalmente libero da giudizi e pregiudizi, si parla liberamente di sé, degli effetti della violenza da annientare, di obiettivi di crescita personale, di desideri da realizzare. Per diventare la donna che si vuole essere, o per far riaffiorare la donna che è stata annullata dalla violenza, attraverso un percorso comune.

Idee diverse di femminilità a confronto, tutte vere e legittime. Un modo di pensare le relazioni tra donne che in modo incondizionato dà valore, riconoscimento, forza.

Non è un gruppo psicoterapeutico, ma un luogo di incontro e di parola

Gli incontri sono gratuiti e si svolgono presso lo studio di psicoterapia di Ancona, via Saffi n. 12, ogni primo lunedì del mese, dalle ore 18 alle 20. Per entrare a far parte del gruppo è necessario un primo incontro conoscitivo.

Altri servizi  inerenti il benessere psicologico delle donne:

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La sala d’attesa

La sala d’attesa

La sensibilizzazione sulla violenza di genere, le sue dinamiche e le vie per affrancarsene può passare attraverso diversi canali. Uno di questi è il teatro.

Vorrei qui presentare l’esperienza teatrale particolare portata avanti da un gruppo informale di attrici non professioniste di cui faccio parte e che ha preso il nome di “A casa di Teresa“, ad indicare il luogo dove il gruppo ha iniziato a riunirsi.

L’opera che viene rappresentata è “La sala d’attesa” di Stefania De Ruvo. In una non meglio definita sala d’attesa si ritrovano 5 donne, tutte diverse ma, come scopriranno parlando, accomunate da un destino simile. Sono tutte vittime della violenza maschile. Nella dialettica, talvolta anche conflittuale tra di loro, i personaggi portano la propria esperienza di violenza, condividendola e contribuendo a illustrare un particolare aspetto della violenza.

È questa l’occasione per fornire qualche elemento in più alla comprensione della spirale della violenza, per capire il perché è una trappola dalla quale è difficilissimo fuggire e le conseguenze che ha anche sul piano psicologico, oltre che fisico.

Chiara è il personaggio che mette in scena il classico “ciclo della violenza”.

Le esplosioni violente si alternano a fasi di rappacificazione, in cui il maltrattante apparentemente riconosce e chiede scusa per il suo comportamento abusante, promettendo di cambiare.

È questa una dinamica che ritroviamo spesso nei rapporti maltrattanti e che contribuisce a costruire una gabbia le cui sbarre sono difficili da oltrepassare. La donna che ne è prigioniera si trova nella confusione: alterna momenti di paura a momenti in cui rinasce la speranza che lui abbia capito e che le cose cambieranno. Il suo sforzo è quello di sopportare, in attesa che questo cambiamento si attui; nel frattempo si impegna a mantenere una immagine di famiglia perfetta all’esterno, per vergogna, ma anche per la disperazione di chi si aggrappa a quel poco che c’è di bello nella relazione.

Maria è una donna più matura, che racconta di una vita volta a scongiurare le esplosioni violente attraverso l’obbedienza, la sottomissione, fino al totale asservimento. È questo il dramma delle donne che spendono una intera esistenza pensando che se saranno più capaci, attente, docili, dedite al proprio marito, lui sarà più calmo e non avrà motivo per rimproverare o peggio, picchiare. È il personaggio che ci fa capire quanto tutto questo sia inutile, perché il maltrattante agirà violenza comunque.

Nonostante la vittima continuamente colpevolizzi se stessa, individuando le cause della violenza in un qualche errore commesso, di fatto la violenza cesserà solo se e quando lui lo vorrà, indipendentemente dal comportamento di lei.

Il personaggio di nome Cristina rappresenta l’esperienza di abuso in famiglia. I suoi monologhi sono uno spaccato sul dramma dell’incesto e sul clima di omertà familiare che rende sole, abbandonate ad un carnefice che non si può avere la forza di contrastare, per il potere schiacciante che un padre può avere su una figlia. Cristina dà anche voce alle pesanti conseguenze psicologiche che un simile trauma può avere per tutta la vita, in termini di autostima distrutta, senso di impotenza, depressione profonda.

Lucia è la donna forte, risoluta, che reagisce immediatamente. La consapevolezza di sé e dei propri diritti la porta a lasciare il partner violento dopo il primo schiaffo. Lucia diventa vittima di atti persecutori pesanti e con conseguenze drammatiche. La sua vicenda ci fa riflettere su quanto sia ridicola la questione che a volte viene posta quando si parla di violenza domestica: “E perché non lo lascia, se non le piace come la tratta?”

Uno dei motivi principali per cui una donna non lascia un uomo violento è che sa i rischi a cui andrebbe incontro. La violenza peggiora, quando lei decide di separarsi, con conseguenze a volte anche letali.

Lucia è il personaggio che paga il prezzo della sottovalutazione del pericolo.

L’ultimo personaggio, senza nome, è la donna che instaura col proprio carnefice un legame di patologica alleanza.

In psicologia viene definito “legame traumatico”, caratterizzato da una forma di dissociazione per la quale la vittima stessa nega la violenza, se ne distanzia, non la vuole vedere.

Lo fa innanzi tutto per sopravvivere lei a una realtà tanto orribile da poterla accettare solo negandola o trovandole giustificazioni. Il legame traumatico “normalizza” l’abuso, lo rende accettabile, ma mina profondamente una obiettiva percezione della realtà. Forse, se è senza nome, è anche perché è di tutte le donne di questo dramma quella che più perde se stessa, annullandosi.

Il progetto che ruota intorno a “La sala d’attesa” ha molteplici obiettivi:

  • mettere in scena non tanto la violenza quanto la sua narrazione, attraverso le parole delle donne, ridando quindi voce a coloro che voce non hanno avuto;
  • sensibilizzare e far conoscere le dinamiche e le conseguenze della violenza, per riconoscerle, difendersene, denunciarle alle prime avvisaglie, anche quando riguardano persone a noi vicine;
  • contribuire a finanziare associazioni private che gestiscono importanti presidi: centri e sportelli antiviolenza innanzi tutto.

Il gruppo “A casa di Teresa” è a disposizione delle varie realtà territoriali a cui interessa fare sensibilizzazione attraverso questa modalità. Scopri il loro progetto.

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Protocollo Napoli

Protocollo Napoli

Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio

Questo studio recepisce e attua il “Protocollo Napoli”, le linee-guida in materia di consulenza psicologica in caso di violenza, nella cornice della Convenzione di Istanbul.

Nei casi di violenza domestica e violenza assistita da parte dei bambini, gli esperti possono essere chiamati a valutare le condizioni per l’affidamento dei figli nella fase di separazione. Affinché sia garantita la tutela psicofisica non solo dei minori ma anche delle loro madri, vi sono dei principi ineludibili ai quali richiamarsi per gestire il caso non come una comune separazione, ma una situazione nella quale la sicurezza delle vittime della violenza va messa al primo posto.

Le colleghe Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo, Elvira Reale ed Ester Ricciardelli definiscono i seguenti punti:

a) Valutare la presenza di violenza domestica nei confronti della madre (IPV)
b) Sollecitare gli esperti a un sempre maggiore approfondimento della specificità
c) Promuovere la distinzione tra intervento psicologico valutativo e trattamento
d) Promuovere l’ascolto del minore, partendo dal diritto alla ‘Safety First’
e) Promuovere il Dovere-Diritto alla genitorialità (Art. 30 della Costituzione)
f) Promuovere l’adesione solo ai costrutti scientifici validati da organismi internazionali
g) Promuovere modalità di affido che non alterino le abitudini di vita del minore

Valutare se nella famiglia il padre agisce violenza fisica, psicologica, sessuale sulla madre è un elemento di primaria importanza, alla luce del quale comprendere eventuali inadeguatezze sul piano della genitorialità: per il padre in termini di pericolosità; per la madre in termini di sintomatologia traumatica da non confondere con disfunzioni o fragilità personali più strutturali.

Download del protocollo

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Laboratorio “Il cerchio di Banpo”

Laboratorio di assertività femminile

“Il cerchio di Banpo” è un percorso di gruppo strutturato centrato sull’assertività e l’affermazione personale delle donne.

Il programma del laboratorio ruota intorno a tecniche specifiche per rafforzare l’autostima, gestire emozioni e stati d’animo, porsi obiettivi di crescita personale e di sfida attiva delle proprie paure. Molto pragmatico ed esperienziale, permette di incrementare abilità specifiche e la fiducia nel proprio potenziale.

Se anche l’autostima è un fattore rilevante per tutti, anche per gli uomini, in una cultura ancora profondamente patriarcale sono le donne a pagare il prezzo più alto in termini di svalutazione, squalifica, sottostima del valore e delle capacità personali. L’autostima delle donne ha dunque una componente socio-culturale e politica che in questo laboratorio è oggetto di riflessione critica, accanto ai fattori individuali e familiari.

Di seguito alcune delle tematiche che possono essere affrontate:

  • Le specificità dell’autostima al femminile
  • Il rapporto col “femminile”
  • Il rapporto col “maschile”
  • I meccanismi di intrappolamento e svalutazione del potenziale
  • Costruirsi un’idea di valore personale
  • Difendersi dalla manipolazione affettiva
  • Interrompere i meccanismi che alimentano l’ansia
  • La paura: riconoscerla e sfidarla
  • La rabbia: riconoscerla e usarla in modo costruttivo
  • Difendere i propri confini e i propri diritti
  • Sopravvivere al perfezionismo
  • Costruire un rapporto sano col proprio corpo
  • La violenza di genere e le molestie: come difendersene

Il servizio è pensato per essere itinerante, a disposizione di qualunque realtà (associazioni, centri, sportelli antiviolenza, strutture d’accoglienza) che voglia avvalersene per sé e/o per la propria utenza.

I gruppi possono andare da un minimo di 8 a un massimo di 15 persone. A seconda della dimensione del gruppo e del contesto, il programma viene personalizzato. Anche il numero e la durata degli incontri può essere flessibile in base alle specifiche esigenze del gruppo.

“Banpo” era una comunità matriarcale stabilitasi nella valle del fiume Giallo in Cina e risalente a circa 6000 anni fa. Il servizio prende il nome da una delle molte comunità del passato in cui le donne erano protagoniste, proprio per sottolineare l’importanza di un contesto comunitario al femminile per darsi forza e riconoscimento a vicenda.

I prossimi appuntamenti del “Cerchio di Banpo”:

Il Cerchio di Banpo 3 a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, in via Corridoni 21. Date: 27 gennaio, 10 e 24 febbraio, 10 e 24 marzo 2025 – dalle ore 18 alle 20

Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano

Il Cerchio di Banpo 2 a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, in via Corridoni 21. Date: 9, 16 e 30 ottobre, 13 e 20 novembre 2023 – dalle ore 18 alle 20

Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano

Il Cerchio di Banpo a Fabriano, presso l’associazione Artemisia, che gestisce il centro antiviolenza cittadino, in via Corridoni 21. Date: 17, 24 ottobre, 7, 14, 21 novembre 2022 – dalle ore 18 alle 20

Per ulteriori info: Associazione Artemisia Fabriano

Altri servizi  inerenti il benessere psicologico delle donne:

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Supervisione di servizi antiviolenza

Supervisione di servizi antiviolenza

L’uscita dalla violenza è un percorso, composto da fasi, ognuna delle quali ha delle specificità.

Affiancare con efficacia una donna che subisce violenza significa innanzi tutto accantonare una serie di luoghi comuni e nozioni apparentemente intuitive per entrare nella logica di un processo complesso, articolato, costellato di ostacoli e di decisioni difficili. Le equipe dei centri antiviolenza e delle case rifugio possono beneficiare molto di una supervisione centrata sui casi, al fine di:

  • Rilevare, negli specifici casi, gli ostacoli non solo materiali, ma anche psicologici (attenzione: NON psicopatologici) alla fuoriuscita dalla violenza
  • Saper leggere nel caso specifico le conseguenze del trauma e le strategie di sopravvivenza
  • Capire in quale fase del percorso di fuoriuscita si trova la donna in un dato momento e definire strategie di accompagnamento alla successiva fase
  • Predisporre un piano di sicurezza
  • Fornire il giusto supporto per ogni stadio, in sintonia con i tempi della donna
  • Evitare gli errori più comuni per gli operatori/trici
  • Saper mettere in atto strategie efficaci per superare le fasi di stallo nel percorso
  • Comprendere come le dinamiche interpersonali all’interno del servizio possono interferire con l’accoglienza delle donne che chiedono aiuto.

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