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Autore: Elena Grilli

Il disimpegno morale di Bandura… a Gaza

La teoria del disimpegno morale di Albert Bandura spiega come le persone possano compiere azioni immorali o crudeli senza provare sensi di colpa e senza compromettere la propria autostima.

Impossibile non associare quanto sta accadendo a Gaza con quelli che sono i meccanismi cognitivi ormai ben noti che qualunque carnefice attua dentro di sé, per normalizzare e giustificare a se stesso le atrocità che compie su altri esseri umani.

Impossibile anche non ricordare, dai miei studi universitari, che i primi ricercatori che studiarono questi aspetti, approfondendo le radici culturali, psicologiche e sociali che avevano reso possibile l’Olocausto – Adorno, Horkheimer, Lewin, Fromm e altri – erano tutti ebrei perseguitati dal nazismo rifugiatisi in America.

Il disimpegno morale di Bandura

La teoria di Bandura, che trovo particolarmente utile, mostra come attraverso il disimpegno morale si ridefiniscono cognitivamente le proprie azioni per non sentirsi responsabili o colpevoli, anche quando quelle azioni violano norme etiche e producono conseguenze drammatiche sul piano umano.

Bandura identifica otto meccanismi psicologici che letteralmente disattivano la coscienza morale, rendendo possibile l’attuazione di atrocità senza provare conflitti interiori. Li troviamo praticamente tutti nel dibattito sul genocidio in atto nella Striscia di Gaza, segno che tutti gli studi sul funzionamento umano portati avanti dal secondo dopoguerra non ci hanno reso persone migliori, purtroppo.

Tuttavia, da psicologa devo continuare a pensare che la consapevolezza può salvarci e renderci persone più sensibili, compassionevoli e gentili, verso gli altri e verso noi stessi. Provo quindi a spiegare come i meccanismi cognitivi del disimpegno morale rendono possibile un genocidio, lasciando i carnefici con la beata convinzione di agire per il bene e dunque perfettamente a posto con la propria coscienza.

Gli otto meccanismi del disimpegno morale

1 – Giustificazione morale: si ridefinisce l’atto immorale collegandolo con uno scopo superiore o addirittura nobile, in modo da farlo apparire giusto, utile o necessario

Un’azione palesemente ingiusta e brutale, come l’uccisione di bambini in fila per il cibo, nel momento in cui viene collegata a valori superiori, viene trasformata in qualcosa di doloroso sì, ma necessario o addirittura virtuoso. Chi perpetra tali brutalità non si sente colpevole, ma eroico. L’uccisione in massa dei palestinesi è giustificata come una necessità legata alla sicurezza nazionale e alla lotta contro il terrorismo di Hamas. L’invasione viene presentata come una missione moralmente necessaria alla sopravvivenza, per proteggere i civili israeliani.

Invocando l’autodifesa, si trasforma un’azione militare che uccide in prevalenza i civili in un “diritto”, posto all’interno di una cornice “morale” sostenuta anche dall’idea estremamente diffusa tra gli israeliani che gli ebrei, “popolo eletto”, abbiano una missione o uno scopo particolare nel mondo, legato al loro rapporto speciale con dio. Alcuni leader e sostenitori israeliani invocano la protezione del popolo ebraico come “dovere sacro”, talvolta citando testi religiosi per giustificare l’uso della forza. Ed ecco che l’orrore diventa moralmente accettabile e il rimorso un fardello facile da rimuovere.

2 – Etichettamento eufemistico: si usano parole neutre o ambigue per descrivere azioni gravi, mascherandone o attenuandone la brutalità

Il linguaggio influenza la percezione e ha il potere di attenuare o neutralizzare la gravità dell’atto, ad esempio attraverso termini come “operazione chirurgica”, “neutralizzazione di minacce”, “danni collaterali”, per riferirsi a bombardamenti che causano ingenti danni alle infrastrutture civili e perdite di vite umane, come se si trattasse di un’operazione legittima, precisa e controllata. In realtà, si tratta di azioni che colpiscono indiscriminatamente civili e possono essere considerate come crimini di guerra. Si usano espressioni come “situazione tragica ma inevitabile”, per normalizzare e rendere l’orrore più digeribile.

Il termine “genocidio”, invece, continua a incontrare notevoli resistenze, con una serie di sottili distinzioni tecniche e semantiche, allo scopo di addolcire la percezione di quello che avviene realmente. “Genocidio” implica un’azione sistematica e intenzionale di sterminio, con l’intento di annientare un popolo o un gruppo, mentre “guerra” o “conflitto israelo-palestinese” suggeriscono che le vittime siano solo “collaterali” di uno scontro tra due parti in lotta e non parte di un piano deliberato di sterminio o distruzione. La questione linguistica non è secondaria, in termini di evitamento di assunzione di responsabilità, anche a livello internazionale.

3 – Confronto vantaggioso: si paragona il proprio atto immorale a uno ben più riprovevole, per farlo sembrare relativamente accettabile

La violenza su larga scale di Israele, confrontata con le atrocità commesse da altri Stati (ad esempio la Siria) oppure dallo stesso Hamas, viene ridimensionata nella percezione della gravità e quindi nell’impatto emotivo e morale. Si citano spesso gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza e le condizioni in cui sono tenuti, come simbolo della brutalità di Hamas, mentre Israele sottolinea di aver adottato misure preventive, come avvisi di evacuazione e corridoi umanitari, per ridurre il numero di vittime civili. Il presidente israeliano Herzog ha dichiarato: “Israele non uccide indiscriminatamente”, passando il concetto che le loro uccisioni sono mirate e legittime, non barbare e irrazionali come quelle di altri.

4 – Dislocamento della responsabilità: si attribuisce la decisione e quindi la colpa a un’autorità superiore, negando il proprio ruolo

Rappresentarsi come “esecutori” di ordini superiori invece che “autori” di un’azione immorale, permette a chi agisce di dissociarsi dalle conseguenze morali delle proprie azioni e di azzerare il peso della colpa. È come dire: è terribile quello che sto facendo, ma non sono io ad averlo voluto; che colpa possono averne? Ogni militare tende a deresponsabilizzarsi attribuendo la decisione alla gerarchia militare superiore.

Nel caso di Israele, la responsabilità ultima è di dio. Il dislocamento avviene riferendosi a un disegno superiore o collettivo che va oltre la propria responsabilità personale. Ritenendo che le proprie azioni siano parte di un mandato divino o di un destino scritto, gli atti violenti non sono più visti come un’azione brutale personale, ma come una manifestazione della volontà di dio. È infatti dio ad aver scelto gli ebrei come “popolo eletto” e ad aver loro assegnato la “terra promessa”.  L’individuo che non agisce secondo la propria volontà, ma obbedisce a un mandato divino che non può essere messo in discussione, dorme i sonni tranquilli di chi ha la coscienza a posto.

5 – Diffusione della responsabilità: la responsabilità di un’azione viene condivisa tra più soggetti, riducendone il peso individuale

È un meccanismo che consente la dispersione della responsabilità riducendo il senso di colpa e la pressione morale sul singolo. Il sostegno (leggi complicità) internazionale contribuisce a legittimare e perpetuare il massacro a Gaza, come se l’azione fosse condivisa e quindi meno imputabile. La responsabilità di Israele viene diluita, se vi sono Paesi che continuano a fornire armi e a sostenere il suo “diritto alla difesa”, pur conoscendo le accuse di genocidio.

6 – Distorsione delle conseguenze: si nega o si minimizza l’impatto dell’azione immorale o i suoi effetti dannosi, fino a renderli irrilevanti

La propaganda israeliana enfatizza le azioni che sarebbero state intraprese per evitare le vittime civili (avvisi di evacuazione tramite i volantini, corridoi umanitari), per sostenere che le conseguenze negative sono tutto sommato limitate o non intenzionali.

Qualche commentatore si è spinto oltre, dimostrando dati alla mano che la popolazione di Gaza sarebbe aumentata, per poter negare le evidenze di una distruzione sistematica. La demografia viene usata in questo caso per rendere invisibili le vittime e per oscurarne la sofferenza. Sono numeri e non persone, sono in aumento e quindi non può esserci genocidio. Di pari passo si enfatizzano le vittime israeliane, amplificando la portata delle sofferenze dei singoli ostaggi, sofferenza senz’altro reale, ma che appare come di più degna considerazione rispetto quella delle vittime palestinesi.

7 – Deumanizzazione: si nega l’umanità della vittima, riducendo l’empatia nei suoi confronti

Descrivendo le vittime come appartenenti a un gruppo inferiore o meno umano, la crudeltà nei loro confronti è possibile senza rimorsi. Se ci si considera il popolo prescelto da dio, ovviamente gli altri sono poco più che bestie o parassiti e non meritano rispetto. Anche l’essere stati vittime di un Olocausto fornisce agli israeliani un elemento che giustifica il porsi in una posizione superiore, praticamente intoccabile, rispetto a chiunque altro. I palestinesi vengono spesso descritti in modo stereotipato o disumanizzante, associati indistintamente a terroristi di Hamas o a soggetti a cui non è attribuita la dignità di persone. Discriminazioni, violenze e uccisioni nei loro confronti generano meno orrore.

8 – Attribuzione di colpa: si rovescia la responsabilità sull’altro, facendo apparire la vittima come causa del proprio destino

Questo meccanismo comporta il portare a ritenere che la vittima abbia meritato il danno subito. Se l’altro “se l’è meritato”, allora l’atto è giusto. Le azioni di sterminio vengono presentate come risposta agli attacchi del 7 ottobre 2023. In questo modo, i palestinesi sono rappresentati come responsabili della propria sofferenza per aver “provocato” Israele, narrazione che ribalta il ruolo di aggressore e vittima. Qualcuno ha perfino parlato di “punizione collettiva”.

A volte ci si è spinti fino a dire che sono i palestinesi a mettersi in pericolo e a non proteggere i propri figli.  Si sostiene che se Hamas si nasconde tra la popolazione, è “colpa loro” se i civili vengono colpiti, perché usati come scudi umani. Alcune narrazioni suggeriscono che i palestinesi vogliono Hamas e quindi sono corresponsabili delle loro azioni terroristiche. È un meccanismo molto efficace per evitare la colpa. Se l’intero gruppo palestinese è colpevole per le azioni di Hamas, allora l’intera popolazione di Gaza è un obiettivo legittimo.

Non dimentichiamo che, come mammiferi, siamo creature sociali, naturalmente inclini a relazioni affettuose, alla compassione e alla gentilezza verso i nostri simili. Siamo crudeli quando la tenerezza, biologicamente connaturata in noi, viene disattivata attraverso una narrazione che legittima quello che naturalmente ci ripugnerebbe.

Spero davvero che la consapevolezza di questi meccanismi possa diventare una forma di resistenza morale: un modo per non lasciarsi manipolare, per scegliere intenzionalmente la compassione al posto dell’odio e per non sospendere mai la nostra coscienza morale.

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Un progetto di AMT Teatro

Un progetto di AMT Teatro

L’associazione AMT Teatro ha una doppia anima. Lo spettacolo, ma anche l’impegno civile e la sensibilizzazione su varie tematiche sociali, come la violenza. Trovo potente coniugare attività di formazione e di psicoeducazione al teatro, indubbiamente più capace di toccare e sollecitare l’emotività. Permette di vivere da dentro il tormento, la sofferenza, il conflitto conseguenza delle infinite umiliazioni, vessazioni e minacce a cui è sottoposta una donna che subisce violenza in una relazione di intimità.

Il sapere, sommato al sentire profondamente, diventa solida consapevolezza.

L’evento di debutto dell’associazione AMT Teatro è stato il 12 settembre 2021 a Monte San Vito, con la rappresentazione del dramma “La sala d’attesa” di Stefania De Ruvo. Subito dopo, un momento di riflessione sulle radici socio-culturali della violenza di genere, sulle forme e le dinamiche della violenza e le sue conseguenze anche psicologiche per le donne. Accanto a me, nell’attività di formazione, Antonella Pampolini, educatrice ed esperta di violenza di genere.
Il progetto intende supportare varie realtà territoriali che operano nel contrasto della violenza, sia contribuendo alle loro iniziative di sensibilizzazione, sia raccogliendo fondi in loro favore.

Nella rappresentazione del 12 settembre, ad esempio, pur essendo un evento gratuito, sono stati raccolti fondi per il centro antiviolenza di Fabriano “Artemisia”.

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Approfondisci gli aspetti psicologici dei personaggi de La sala d’attesa

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Io e la mia amica ansia

Io e la mia amica ansia

Laboratorio di base di autoregolazione dell’ansia

Teatro Dorico, Ancona, dal 7 ottobre 2021

Laboratorio di gruppo condotto insieme all’amica Antonella Pampolini, consulente socio-pedagogica, per AMT Teatro, un’associazione che si pone finalità di formazione, sensibilizzazione ed educazione che vanno ben al di là delle sole attività teatrali.

In cinque incontri, vengono approfonditi i meccanismi dell’ansia e di quel sistema della minaccia che si attiva quando percepiamo un pericolo. Come funziona? Come rispondono il nostro cervello e il nostro corpo? Perché siamo arrivati a reagire così? Cosa è nel nostro controllo e cosa no? Ma soprattutto: quali sono gli schemi di pensiero e di comportamento di cui possiamo diventare consapevoli, che hanno un ruolo in tutto questo?

Accanto a momenti di psicoeducazione, sono contemplati momenti di esercitazioni pratiche, per acquisire una crescente capacità di auto-regolazione, di rispettosa auto-esplorazione e di dialogo interiore più pacato.

Gli incontri sono gratuiti per i soci e le socie di AMT Teatro.

ATTENZIONE: Questo percorso non sostituisce una psicoterapia per le persone con un grave disturbo d’ansia. Il laboratorio offre spunti e permette di toccare con mano modalità più funzionali di rapportarsi con se stessi e i propri vissuti emotivi, che favoriscono il benessere, ma senza avere la pretesa di guarire completamente da sintomi consolidati nel tempo che richiederebbero un percorso di terapia personalizzato.

Programma

7/10/2021 Presentazione del programma, Introduzione generale sull’ansia
14/10/2021 I nostri sistemi emotivi, I sintomi fisiologici dell’ansia
21/10/2021 I sintomi cognitivi dell’ansia 1: gli stili di pensiero “inutili”
28/10/2021 I sintomi cognitivi dell’ansia 2: gli schemi consolidati nel tempo
4/11/2021 I sintomi comportamentali: quello che facciamo che alimenta l’ansia

I pareri delle partecipanti che hanno voluto lasciarci un feedback:

« Questo laboratorio è stato molto utile e interessante, ho potuto comprendere molte cose che riguardano me e la mia ansia.

« Grazie a voi!! Il laboratorio è stato veramente interessante ed utile. E’ mia intenzione partecipare ad un’altra edizione per acquisire maggiore conoscenza dei meccanismi dell’ansia e soprattutto del mio sistema emotivo. Permettere che questi apprendimenti si sedimentino sempre di più per migliorare la convivenza con la mia amica ansia.

« Le spiegazioni sui nostri tre sistemi sono state molto esaurienti e utilissime ma mi piacerebbe vederli in scena magari con delle mimiche e delle scenette di vita reale. Tantissimi complimenti a voi organizzatrici così brave e alla mano sempre molto partecipi anche emotivamente.

« Iniziativa interessante e utile.

« Posso dire solo che mi sono trovata a mio agio.

« Confermo tutta la mia sorpresa e il gradimento per il corso svolto.

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Compassion focused therapy

La Compassion focused therapy

È un approccio integrato che si basa sulla psicologia evoluzionistica, sociale, dello sviluppo e sulle neuroscienze.

Il focus è sulla capacità di sviluppare una mente compassionevole per aiutare le persone a fare l’esperienza di calore, sicurezza e calma interiori. Si tratta di una serie di tecniche che integrano l’approccio cognitivo-comportamentale e che permettono di superare più velocemente il vissuto di vergogna e di colpa, comuni a molte forme di psicopatologia e di sofferenza umana.

Le esperienze di colpa e di vergogna

La ricerca scientifica suggerisce che uno specifico sistema di autoregolazione emotiva sottostà ai sentimenti di auto-rassicurazione, sicurezza e benessere psicologico. Tale sistema si è evoluto con i meccanismi di attaccamento e la capacità della figura accudente di cogliere e rispondere ai fondamentali bisogni del bambino, trasmettendo la sensazione rassicurante di essere protetti, nutriti, accolti con tenerezza. Questa esperienza così fondamentale potrebbe essere stata carente nella storia di vita ed essere così all’origine di uno sbilanciamento emotivo.

Le persone con elevati livelli di vergogna e di autocritica hanno enormi difficoltà ad essere gentili e compassionevoli con se stessi. Non sempre, ma a volte c’è a monte una storia di abusi, trascuratezze gravi o profonde deprivazioni sul piano affettivo. Chi ha avuto esperienze precoci di questo tipo è molto sensibile alla minaccia del rifiuto o della critica e rapidamente diventa autocritico oppure ostile verso il mondo esterno.

La terapia focalizzata sulla compassione

La Compassion Focused Therapy fa parte delle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, sviluppata da Paul Gilbert. Secondo Gilbert sono tre i sistemi emotivi fondamentali: il sistema della minaccia, il sistema della ricerca di stimoli e il sistema calmante.

Una serie di tecniche e pratiche di CFT permettono di allenare e sviluppare il sistema motivazionale innato dal potere calmante e disattivante (soothing system) rispetto al sistema della minaccia che sottostà ai vissuti di paura, ansia, rabbia. L’obiettivo della terapia non è annullare il sistema della minaccia così utile per proteggerci quando è necessario, bensì riequilibrare i tre sistemi di regolazione delle emozioni.

Una serie di pratiche guidano il paziente verso una auto-osservazione rispettosa, tenera e gentile, arrivando anche a rientrare in contatto con traumi ed esperienze interiori molto negative. La pratica di CFT aiuta anche nel silenziare il rimuginio autodistruttivo, nel prendere le distanze dai circoli viziosi del pensiero autocolpevolizzanti che perpetuano la sofferenza, nell’interrompere quello che viene definito il “ciclo dell’ansia”.

La dott.ssa Grilli ha ottenuto la certificazione europea per la CFT. Vedi il sito di Compassionate Mind Italia

Contatta la dott.ssa Elena Grilli per esplorare pratiche che si sono già dimostrate particolarmente efficaci per i disturbi dell’umore, il disturbo post-traumatico da stress, le psicosi, il dolore cronico.

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Quando 1+1 fa sempre 1

Quando 1+1 fa sempre 1

La violenza psicologica come modo per annullare l’alterità

Breve sintesi dell’intervento

“Quando 1+1 fa sempre 1” è illustrativo di quello che accade in una relazione sentimentale non alla pari, basata sul potere e il controllo, non necessariamente ottenuto attraverso agiti palesemente violenti sul piano fisico. Le modalità più nascoste e subdole, dobbiamo poterle riconoscere per potercene difendere. Quello che accade è che una delle due individualità prevale al punto da annullare, schiacciare, cancellare completamente l’altra.

Quello che è in gioco nella relazione è il potere assoluto. Uno dei due necessita di dominare come un sovrano assoluto. Diversamente dal violento fisicamente, però non è un sanguinario, che soffoca nel sangue la ribellione. E’ un capo che vuole la sottomissione volontaria di una partner, la sua adulazione. Vuole che la partner non possa nemmeno immaginare la sua vita senza di lui.

Ora, se si vuole la sottomissione di qualcuno, senza commettere reati, senza minacciare di morte, senza picchiare, senza usare armi o oggetti contundenti, come si può fare? Si attacca la fiducia che la persona ha in se stessa, facendola vacillare, portandola ad avere dubbi sulle proprie capacità. Portandola alla convinzione di avere bisogno di appoggiarsi a qualcuno che la sorregga, la guidi e la protegga. È così che si ottiene il potere.

Chi fa violenza psicologica?

Il senso comune ci dice che tutti e tutte siamo capaci di fare violenza psicologica. Nella coppia può avvenire ad opera di un uomo o ad opera di una donna verso il rispettivo partner. Si è visto che può avvenire con le stesse modalità anche nelle coppie omosessuali.

Ma… la violenza ha anche radici culturali, viene di più legittimata quando viene fatta da un uomo. Per questo motivo è statisticamente più frequente e più micidiale e pericolosa. Anche i giudizi negativi sono più forti su una donna quando non si confà ai ruoli di genere. La cultura ancora profondamente patriarcale ci insegna fin da appena nati che le donne sono fatte per servire gli uomini. Dunque quando un uomo fa violenza psicologica criticando il disordine in casa, la cena fredda, la camicia non stirata, viene anche legittimato dalla cultura dominante. Invertendo i ruoli, una donna può certamente agire violenza psicologica imponendo pretese varie, ma non c’è un retroterra culturale che le dia ragione.

Una delle modalità attraverso cui avviene il soggiogamento di una persona è l’isolamento, fino anche alla reclusione tra le quattro mura. Anche qui, una donna che esce da sola o con le amiche lasciando il marito a casa può andare incontro a pesanti giudizi. Dunque quando un uomo fa pesare che non dovrebbe uscire senza di lui, è legittimato in parte da un pensiero che non è solo suo, ma di una parte della società in cui viviamo. Il contrario non accade. Una donna può agire nel senso di limitare la libertà dell’altro, criticando, accusando, insinuando, ma certamente andrà incontro al biasimo generale.

In definitiva, se in una coppia è l’uomo a dettare le regole, a dominare, si dice che sta facendo l’uomo. E questo è ok. Se è una donna ad avere il comando, si dice che non è una vera donna. Non è ok. Il primo viene premiato dalla società, la seconda viene biasimata.

Il bisogno di controllo: perché?

Tutti abbiamo bisogno di controllo: ci permette di percepire la realtà in modo stabile e meno minaccioso. Se io ho fiducia di poter esercitare un certo controllo sulla realtà che mi circonda, nulla di poi così terribile mi potrà mai capitare. Non sono alla mercé del caso, del fato, di eventi avversi fuori dal mio potere. Questo è vero per tutti quanti noi. E riguarda anche le relazioni sentimentali: il bisogno di sentire che la relazione sia stabile, sicura e che la persona che ho accanto è affidabile.

Per alcuni il bisogno di controllo è esasperato, diventa bisogno di potere sull’altro. Ha a che fare con il non accettare un minimo rischio. Ad esempio, in una coppia alla pari, dove entrambi sono liberi, è necessario accettare una certa dose di rischio di essere traditi o lasciati. Se non lo si accetta, perché si dà a questi fatti un significato particolarmente negativo, terribile (sono rifiutabile, abbandonabile, sono sbagliato, le mie relazioni sono un fallimento e quindi io sono un fallimento) allora si cercherà di scongiurare il più possibile questa evenienza, esercitando controllo. In una profezia che si autoavvera, di solito proprio diventando controllanti, invadenti, pretenziosi si è più esposti al rischio di essere lasciato, ma questa consapevolezza a volte manca.

Sicuramente chi ha dei tratti di personalità narcisistici, col suo bisogno di risplendere, essere posto al centro, avere un piedistallo su cui poggiare, può attuare modalità di manipolazione o violenza psicologica. Ma non sono necessariamente i narcisisti gli autori della violenza psicologica. A volte, la persona potrebbe avere semplicemente bisogno di auto-rassicurarsi sulla stabilità del proprio legame, quindi può trattarsi di una persona con dei tratti di personalità di tipo dipendente. A volte, più raramente, ci possono essere persone con dei tratti cosiddetti sociopatici, che a livelli di maggiore gravità possono trarre piacere dall’umiliare, schiacciare, nuocere all’altro, dimostrando a volte perversione, totale indifferenza per il vissuto di sofferenza dell’altro, assenza di rimorso.

In ogni caso le strategie per sottomettere psicologicamente l’altro non cambiano di molto. In certi casi però si possono raggiungere elevati livelli di crudeltà. Spesso sono uomini per un fattore unicamente culturale: sono educati a essere dominanti, pena il non essere considerati “veri uomini”.

La violenza psicologica

La violenza psicologica è tutto ciò che, attraverso le parole o modalità comportamentali, è volto alla demolizione dell’autostima e dell’autonomia di una persona, indebolendo la fiducia in sé e la capacità di autodeterminazione.

Naturalmente, più l’autostima è debole, più è facile rendere qualcuno dipendente.
Le modalità più tipiche con cui si manifesta possono essere più facilmente riconoscibili (minacce, intimidazioni, insulti, offese, denigrazioni, squalifiche) in quanto esplicite e capaci di veicolare un senso di paura o mortificazione. Oppure più difficili da discriminare, quando la modalità prevalente è di tipo manipolatorio (sottili ricatti, manipolazioni della realtà, tattiche volte a isolare qualcuno facendogli terra bruciata intorno, oppure sottili strategie di colpevolizzazione).

L’esito che si può raggiungere è appunto l’annullamento dell’altro come persona, l’azzeramento della sua volontà e libertà di pensiero.

La manipolazione affettiva

Manipolare significa letteralmente lavorare con le mani, plasmare a proprio piacimento. Di base, un bravo manipolatore, è un bravo comunicatore: ci sa fare a ottenere il risultato desiderato, attraverso la comunicazione verbale e non verbale.

Può manipolare la realtà dei fatti, negando che qualcosa sia avvenuto, minimizzando i fatti, oppure mentendo spudoratamente. Lo scopo in questo caso è rendere l’altra insicura circa la propria percezione della realtà. Spesso la manipolazione riguarda la responsabilità personale di quanto accaduto: il manipolatore suggerisce sistematicamente una colpa: per le cose che vanno storte oppure per il suo stesso comportamento (ad esempio insistendo sul fatto che “se ho sbagliato, sei tu che mi hai portato a questo”.)

Spesso il manipolatore utilizza l’arma del vittimismo: “soffro perché tu mi fai del male col tuo comportamento”. Il vittimismo funziona molto nelle relazioni di intimità per portare l’altro a modificare il proprio comportamento in una relazione affettiva tutti e tutte saremmo tentati fortemente di fare tutto ciò che è in nostro potere per far star bene l’altro. Se passa il messaggio che il disagio è dovuto al comportamento del partner (che ferisce, offende, manca di rispetto…) quest’ultimo si sentirà tutta la responsabilità di quel malessere e sarà indotto a modificare il proprio comportamento per alleviare le sofferenze della persona amata. Se questo ha anche una base culturale in termini di pretesa sulle donne di prendersi cura, è ovviamente molto più potente.

A volte la manipolazione passa attraverso il linguaggio non verbale, attraverso gesti anche piccolissimi ma con grande potere comunicativo, ad esempio uno sguardo di disapprovazione, un gesto seccato, una smorfia di disappunto, che la partner rileva. In una relazione affettiva, in cui si cerca di compiacere un partner, si modifica il proprio agire pur di avere una risposta positiva, di approvazione.

A volte la “punizione” può essere un cambiamento di umore, un periodo più o meno lungo di mutismo, oppure una certa freddezza nel modo di fare, che trasmette all’altra biasimo, rimprovero. Se non si riesce a intuire le ragioni di questo cambiamento umorale, ci si può ritrovare a continuare a domandarsi “cos’avrò fatto di sbagliato?”. È una condotta che nel tempo trasferisce un senso di inadeguatezza generale che la persona potrebbe portarsi dentro per molto tempo, in certi casi anche dopo la fine della relazione tossica.

Se queste modalità sono stabili, ripetute sistematicamente, possono avere un grande peso nel limitare qualcuno nelle sue scelte di autonomia.

Il ciclo della violenza

Alla fine degli anni ’70 la psicologa Lenore Walker concettualizzò uno degli strumenti più utili per decodificare quello che accade in una relazione maltrattante, solo apparentemente contraddittorio e confuso per chi lo vive dal di dentro, ma in realtà rispondente a un preciso schema funzionale al rafforzamento del potere dell’abusante.
Il pattern della violenza è composto da precise fasi che si susseguono e si ripetono.

L’accumulo della tensione

La fase di accumulo della tensione è caratterizzata da un crescente scontento e un sempre più visibile fastidio, che nei casi di violenza poi diventa rabbia nel maltrattante, ma può restare semplice maretta. Parallelamente, la donna sente salire dentro di sé un timore o un dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato (quando c’è violenza grave ha proprio paura), che la spinge a fare qualcosa per accondiscendere, calmare, accontentare l’altro; diventa più prudente e attenta a quello che fa.

Il maltrattamento

Nella seconda fase avviene il maltrattamento. Esplode la rabbia e la violenza verbale, quella che le donne ci riferiscono essere anche la forma di violenza che porta più conseguenze per la loro salute psicologica: insulti, offese, critiche aspre, accuse. Se anche non si arriva all’aggressione, è evidente che i litigi non sono alla pari. Chi vince è sempre solo uno; chi ottiene ragione è sempre lo stesso, mentre l’altro soccombe ed è sistematicamente nell’impossibilità di portare le proprie ragioni.

La “luna di miele”

Agli episodi di maltrattamento segue sempre una fase di calma, definita “luna di miele”, caratterizzata dalla volontà di riavvicinamento dell’uomo, che mette in atto una serie di comportamenti compensatori. Ritorna la calma, lui può anche scusarsi per aver detto quelle cose che non pensa, concede qualcosa di molto gradito alla partner. Si quietano le acque. In alcuni casi lui sembra tornare esattamente l’uomo di cui ci si è innamorate, portando la donna a pensare che, se la situazione potesse durare, sarebbe la relazione perfetta, quella che la rende felice, la famiglia che ha sempre voluto avere. L’uomo ha un comportamento del tutto antitetico e contraddittorio rispetto alla precedente fase: laddove la donna veniva svalutata e colpevolizzata (“sei la mia rovina, la causa di tutti i miei problemi”), qui viene esaltata e collocata in un ruolo salvifico (“Non posso vivere senza di te, sarei perso, la mia vita sarebbe finita, solo tu mi puoi guarire”).

Un aspetto da rilevare è che anche nell’apparente pentimento, molto difficilmente il violento si assumerà l’intera responsabilità dell’accaduto. Pur dichiarando il proprio rincrescimento e mostrando contrizione, tenterà sempre di insinuare l’idea che lei non avrebbe dovuto provocarlo, sfidarlo, comportarsi in modo scorretto verso di lui.

Il ciclo della violenza è è intrinsecamente manipolatorio, perché non permette di rendersi immediatamente conto di essere in una relazione tossica: lui ha sbagliato, ma poi ha cercato di rimediare, quindi non è cattivo, no? Mi ha insultato, perché in effetti un errore l’ho commesso, però allo stesso tempo mi adora e non mi fa mancare niente. E così si finisce per permanere in una relazione in cui il maltrattamento viene occultato dai comportamenti compensatori della “luna di miele”, che è, naturalmente, strumentale ad avere il controllo, a inibire la possibilità che lei si voglia svincolare.

Nei casi più gravi, quando il manipolatore ha anche tratti antisociali, possiamo finire nel campo della tortura psicologica e del gusto a minare ogni certezza dell’altra, vederla spaventata e disorientata, vederla nel panico e andare da lui per essere rassicurata, perché lui è paradossalmente anche il punto di riferimento affettivo e la fonte di rassicurazione.

Il continuo alternarsi di maltrattamenti e affettività positiva comportano grande confusione e difficoltà per la vittima a decodificare con chiarezza il problema e le sue cause. Il più delle volte la donna sceglierà di continuare a investire nella relazione, sforzarsi di modificare il proprio comportamento fino all’autosacrificio e oltre, fino al totale annullamento di sé, nella speranza che le cose possano funzionare.

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Paura di nausea e vomito

Paura di nausea e vomito

L’esperienza della nausea non è certo piacevole, tuttavia a volte la paura che la circonda può diventare una vera e propria fobia.

In altre parole, si può andare in ansia anche solo pensando di potersi sentire male in determinate circostanze, che quindi saranno evitate.

Spesso si evitano certi cibi associati con l’esperienza della nausea, oppure non si riesce a mangiare fuori casa. Talvolta si saltano i pasti, immaginando di sentirsi male subito dopo aver mangiato. Le conseguenze più invalidanti hanno a che fare con il non riuscire a fare viaggi, partecipare a feste e cene fuori, servirsi di autobus o altri mezzi di trasporto associati con la nausea. A volte non si esce proprio di casa.

Il pensiero d’ansia può essere quello di sentirsi improvvisamente male, non riuscire a inibire il riflesso del vomito oppure fare una figuraccia in un contesto sociale. In effetti talvolta queste paure fanno parte di un più ampio disturbo d’ansia sociale.

Le persone che soffrono di questo disturbo d’ansia (emetofobia) riconoscono come irrazionali i loro timori. Tuttavia sono in un circolo vizioso nel quale:

  • L’anticipazione della situazione di disagio incrementa l’ansia.
  • L’ansia può effettivamente portare nausea. (L’ansia mette sotto stress tutti i sistemi: cardiovascolare, muscoloscheletrico, nervoso, respiratorio, e anche digerente).
  • La sensazione che proviene dallo stomaco dà alla persona la conferma che quello che teme si sta verificando, in un crescendo di malessere.

Come tutti i circoli viziosi, anche questo si può spezzare.

La terapia

Vi sono tecniche molto efficaci per fronteggiare e superare queste sensazioni e paure. In particolare, la terapia cognitivo-comportamentale può aiutare a:

  • Identificare e sfidare i pensieri negativi che causano stress;
  • Fronteggiare le situazioni temute attraverso tecniche di desensibilizzazione.

Anche quando non vi sono cause mediche che giustificano la nausea e il vomito, chi soffre di questo disturbo tende a fare uso di farmaci per gestirli. La terapia cognitivo-comportamentale invece fornisce alla persona gli strumenti personali per ridurli gradualmente fino alla loro estinzione.

Un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale può facilitare questo passaggio e ridare senso di efficacia, fiducia e potere di cambiamento, interrompendo circoli viziosi improduttivi.

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Non ce la faccio… rimando!

Non ce la faccio… rimando!

Una delle difficoltà che più ci impedisce di raggiungere i nostri obiettivi è la procrastinazione, la sistematica e fatale decisione di rimandare un’attività.

La maggior parte delle volte – ammettiamolo – noi non siamo del tutto persi e senza punti di riferimento. Sapremmo esattamente cosa fare e come. Tuttavia diciamo a noi stessi:

  • “Non ora”
  • “Adesso non ce la faccio”
  • “Ho ancora tanto tempo per…”
  • “Non sono pronto/a”

Naturalmente non è patologica ogni scelta di rimandare qualcosa. Tutti lo facciamo. Ma se la procrastinazione è cronica, mina importanti obiettivi di crescita personale o progetti. E diventa un problema.

Dopo la scelta di rimandare, il nostro cervello continua a lavorare e a valutare la nostra stessa scelta. Iniziamo a dire a noi stessi:

  • “Pigro!”
  • “Sei inutile”
  • “Sei un menefreghista”
  • “Non combinerai mai nulla”
  • “Sei un incapace”
  • “Sei un fallito”

Quando dobbiamo insultare noi stessi di solito non andiamo troppo per il sottile. L’idea (del tutto infondata) è che tanto più ci andremo pesante, tanto più ci riscuoteremo dall’immobilismo. Purtroppo non è così che troveremo la motivazione. Anzi, è questo il modo migliore per avere un umore ancora più basso e un drammatico calo di energie e voglia di fare.

Il circolo vizioso

Siamo di fatto in un  circolo vizioso. Se un’attività è sgradevole, noiosa o difficile, tanto più la rimandiamo, tanto più diventerà difficile pensare di applicarsi. Si tratta probabilmente del meccanismo che più di ogni altro è responsabile dei nostri fallimenti. E ci predispone alla depressione che ci attanaglia in particolari momenti della nostra vita.

Il procrastinatore seriale di solito si trova a dover fronteggiare alti livelli di stress che possono far sentire paralizzati, bloccati. Tanto più applica la sua strategia di evitamento, tanto più si sentirà alleggerito nell’immediato. Il carico di stress aumenterà però a medio e lungo termine. Il carico di lavoro si accumula, la scadenza si avvicina, la paura della disfatta cresce, i pensieri di incapacità personale si fanno più insistenti.

Dietro la tendenza a procrastinare ci può essere la paura di fallire, ed è paradossale come proprio così aumentiamo la probabilità di fallire. E’ come una ferita autoinflitta, un negare a se stessi la gratificazione di un obiettivo raggiunto, un togliere senso alla nostra esistenza.

Come uscirne?

Motore del benessere è rappresentato invece dall’emozione positiva che scaturisce dal riuscire in qualcosa che ci siamo riproposti, il poter dire a se stessi “Ce l’ho fatta”. Questo ci predispone al meglio per il successivo obiettivo da raggiungere. Ogni successo è come un premio per il nostro cervello, e quindi mette in circolo energia positiva.

Per uscire dal circolo vizioso a volte non è sufficiente semplicemente fare quello che si deve fare. Se fosse facile non esisterebbe il problema. Vi sono però metodi collaudati di autoregolazione emotiva che possono facilitare quel movimento in avanti iniziale che innesca il circuito virtuoso di azione e gratificazione.

Come regolare quella tensione emotiva responsabile dell’evitamento? Vi sono delle tecniche, che in un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale possono essere padroneggiate, per ridiventare padroni del proprio destino.

Contatta la dott.ssa Elena Grilli per iniziare ad agire in questa direzione… senza rimandare!

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Complotto!

Complotto!

Le teorie del complotto sono sempre esistite, ma in tempi di crisi tendono a propagarsi con maggiore forza, a volte facendo danni enormi.

Non hanno mai smesso di circolare e con i social hanno avuto un’impennata in termini di diffusione, tutte quelle teorie basate sull’idea di un potente o un gruppo di potenti che stanno mettendo in atto un piano per controllare o sterminare la popolazione. In alcuni casi sono innocue, nel senso che crederci non porta grossi danni, come fantasticare sui piani segreti dietro l’assassinio di Kennedy o il falso allunaggio. Le teorie della cospirazione che si stanno diffondendo in questo periodo di pandemia, invece, portano a comportamenti imprudenti e irrispettosi delle regole di limitazione del contagio, e questo fa salire il numero di malati e morti in una misura che non è nemmeno possibile stimare.

Caratteristiche comuni di queste teorie sono:

  1. una narrazione semplice e lineare, con qualcuno da cui difendersi;

  2. la diffidenza verso le fonti ufficiali.

La pandemia Covid-19 è terreno particolarmente fertile per la diffusione di questo pensiero, perché la pandemia, con tutte le conseguenze che abbiamo toccato con mano negli ultimi mesi, genera paura e un generale senso di impotenza con cui non è sempre facile fare i conti. Noi esseri umani abbiamo un fondamentale bisogno di controllo sulla nostra vita e la pandemia ce lo ha tolto. La sensazione di aver perso delle libertà fondamentali è reale. Anche la confusione e la mancanza di informazioni coerenti e complete è reale. Questo ci dà la sensazione che ci manchi la terra sotto i piedi, che non abbiamo più la vita come la conoscevamo, che davanti a noi abbiamo una totale e oscura incertezza. La paura che ne scaturisce deve essere gestita.

Il complottista in un certo qual modo gestisce la propria ansia, attraverso un metodo di fronteggiamento dell’ignoto che funziona per ripristinare un senso di controllo e di fiducia. Pensare che la nostra vita e quella dei nostri cari sia a rischio a causa di un piccolo evento insignificante che ha coinvolto un pipistrello in Cina, destabilizza e terrorizza. Pensare invece che c’è un preciso schema portato avanti dai poteri forti, rasserena, perché permette di pensare che c’è una soluzione semplice: basta sabotare il piano malefico anche attraverso una serie di post nei social che aprano gli occhi agli ingenui, e tutto tornerà sotto il nostro controllo. Contro le forze della natura non possiamo nulla, ma contro Soros e Bill Gates possiamo molto! Ecco che le teorie del complotto diventano improvvisamente più attraenti della verità.

Peccato che questa modalità sia del tutto disfunzionale e dannosa per sé e per l’intera collettività. Il mettere in circolazione l’idea che i vaccini causino l’autismo o che siano utilizzati per impiantare microchip è un vero e proprio attacco alla salute pubblica. Non solo: genera ancora più confusione e incertezza di quella da cui si cercava di fuggire. Chi alimenta questo paradossale circolo vizioso ha, di base, una bassa autostima e un basso senso di auto-efficacia. L’emozione di paura e impotenza che sperimenta è comprensibile. Il modo di gestirle no.

Mai come in una emergenza come quella attuale è necessario rinunciare alle spiegazioni troppo semplici provenienti da fonti incerte e attenersi ai fatti, anche se ci mettono nel panico. Affidarsi alla scienza e alle autorità sanitarie è l’unico modo per normalizzare la nostra vita e tornare a sperimentare il senso di controllo perduto. Inoltre, sul piano psicologico, tutto quello che stiamo passando è un’importante opportunità per osservare e sfidare le nostre paure, aumentare la nostra capacità di fronteggiamento e la nostra resilienza. Come ogni crisi, ci apre alla possibilità di una crescita.

Sperimentare momenti di sconforto e ansia è del tutto normale in queste circostanze. Possono essere esplorati modi più funzionali di farvi fronte, senza doversi auto-ingannare sulla realtà che ci circonda.

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Il lutto. La vita dopo una perdita

Il lutto. La vita dopo una perdita

Quello della perdita è un tema che prima o poi dobbiamo porci. Andare avanti con la propria vita implica attraversare una serie di stati d’animo del tutto fisiologici.

La letteratura psicologica mette in luce una serie di fasi dell’elaborazione del lutto (Elisabeth Kübler Ross). Vi è una soggettività per cui ognuno di noi potrebbe sperimentare alcune fasi e non altre, oppure viverle con un diverso ordine. Potrebbe aiutarci molto, tuttavia, capire come in un dato momento potremmo sentirci e perché.

1. NEGAZIONE: “Non è possibile che sia accaduto”

È una reazione normale ed è spesso la prima. La negazione è un meccanismo di difesa che smorza l’emozione prorompente immediata, permettendoci di gestire la prima ondata di dolore che non siamo ancora pronti ad affrontare. La negazione non ha a che fare con una carenza di comprensione, al contrario significa che ci sentiamo paralizzati di fronte a una realtà inammissibile che travalica la nostra capacità di far fronte.

Avendo una funzione protettiva, la negazione va accettata come funzionale, soprattutto se la perdita è recente. Possiamo essere onesti verso i nostri sentimenti, piangere liberamente, anche di fronte ad altri. La distrazione (ad es. impegnarsi in molte attività) può alleviare l’intensità del dolore temporaneamente, ma non aiuta a procedere nell’elaborazione emotiva della perdita. Naturalmente non c’è la cosa giusta o sbagliata: ci confronteremo con tutto ciò che ci ricorda la persona a piccoli passi e quando ci sentiremo pronti.

2. RABBIA: “Non è giusto che sia accaduto!”

Un’altra reazione molto normale è la ricerca dei responsabili della perdita, su cui scagliare la propria rabbia. Potremmo prendercela con i colpevoli (più o meno realmente responsabili della morte), verso il mondo ingiusto, verso noi stessi per non aver impedito l’evento o per non esserci stati negli ultimi momenti della sua vita, verso i soccorritori che non hanno fatto abbastanza. Potremmo rivolgere la nostra rabbia anche alla persona deceduta, per averci abbandonato. Le nostre accuse potrebbero talvolta essere razionalmente poco logiche, tuttavia anche questa è una fase necessaria, perché stiamo iniziando a riconoscere la realtà e non siamo ancora pronti a farci attraversare dal dolore.

Anche la rabbia ci protegge e quindi è bene viverla fino in fondo senza vergognarcene, esprimendola o urlandola. Possiamo farlo mentre siamo da soli, oppure con una persona capace di comprendere questo sentimento e di ascoltarci senza giudizi.

3. NEGOZIAZIONE: “E se invece le cose fossero andate diversamente?”

A mano a mano che sempre di più si prende atto della definitività della perdita, il dolore avanza e per alleviarlo potrebbero essere d’aiuto delle temporanee vie di fuga, per costruirci un’idea di speranza e darci il tempo di riadattarci alla realtà della situazione. Alla ricerca di risposte, potremmo impegnarci in un rimuginio volto ad analizzare, capire, spiegare l’accaduto. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se qualcosa fosse andato un po’ diversamente o cosa potrebbe accadere in futuro. Esplorare le possibilità ci fa avvertire di meno il senso di impotenza.

Anche se ci dà un temporaneo sollievo, potremmo finire per impiegare molto tempo a rimuginare su pensieri di tipo “E se…” Le speranze che ci costruiamo in questa fase saranno con ogni probabilità deluse. Per questo è importante riuscire a parlarne a familiari e amici per avere supporto.

4. DEPRESSIONE: “Mi concedo di stare male”

La depressione è una fisiologica reazione al lutto e in questi casi non parleremmo di disturbo mentale. Ci si sente tristi, demotivati, spossati, privi di energie o senza emozioni. Potrebbe comparire un disturbo del sonno o un calo dell’appetito. Per superare la perdita è necessario esplorarla in tutta la sua profondità. Non spaventiamoci di questa sofferenza. È temporanea, anche se potremmo essere tentati di pensare che sarà così per sempre.

Non diamo troppo ascolto a chi pretenderebbe di dirci come ci dovremmo sentire (“fatti coraggio”, “sii forte”, “non piangere” “tirati su, altrimenti ti ammali”). Confrontiamoci col nostro dolore, guardiamolo negli occhi, invece di oscurarlo, magari con comportamenti dannosi (alcool, droghe, ecc.). In questa fase aiuta parlare con persone capaci di ascolto empatico, esprimere le proprie emozioni in modi creativi (scrivere una lettera alla persona cara, creare un album di foto, ecc.) o attraverso iniziative anche collettive che ricordano e onorano la persona defunta (ad es. una commemorazione).

4. ACCETTAZIONE: “Posso andare avanti con la mia vita”

In questa fase abbiamo preso atto che nulla cambierà la realtà. Non necessariamente staremo bene e la persona ci mancherà comunque. L’accettazione è il risultato di un processo di elaborazione, che tuttavia non dobbiamo aver fretta di raggiungere.
A partire da qui, riusciremo ad adattarci alla nuova realtà delle cose e ricominciare a investire nella nuova vita senza la persona cara.

L’accettazione non è un punto di arrivo, ma un processo che continua. Concediamoci di vivere e trarre piacere dalla vita senza sensi di colpa. Ci saranno momenti in cui pensando alla grave perdita saremo tristi. Possiamo però sempre più costruirci una vita ricca di gratificazioni. Riusciremo a farlo nella misura in cui ci concederemo di essere felici senza che questo sia percepito come una mancanza di rispetto verso la persona che non c’è più.

Il tempo di permanenza in una specifica fase è variabile e soggettivo. Dipende soprattutto dall’efficacia delle azioni che mettiamo in atto per gestirle, che possono essere più o meno funzionali. I sentimenti che accompagnano la perdita, in altre parole, non sono qualcosa che subiamo supinamente, ma qualcosa su cui il nostro comportamento agisce.

Un supporto psicologico nelle fasi più delicate può essere di aiuto proprio per questo. Se pensi di averne bisogno, puoi chiedere una consulenza alla Dott.ssa Elena Grilli.

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